(F.Patania) Ha avuto unacarriera lunga e avventurosa, traducendo da direttore sportivo, anzi architetto di squadre, quel talento che sul campo produceva un calcio frammentario, come lui stesso ama definirlo.
Piaceva a Nils Liedholm, dribblava e schizzavia via veloce, transitò dalla Roma nella stagione 1976/77, davanti aveva Bruno Conti e forse la sua storia cambiò il 28 novembre, derby d’andata deciso da un gol straordinario di Bruno Giordano. Walter Sabatini entrò in campo a dieci minuti dalla fine e sparò in Curva Nord il pallone del possibile pareggio. Finì quel campionato con 14 presenze e il ritorno al Perugia, dov’era nato e cresciuto. Oggi ha 56 anni, vive a Roma, è stato scelto da DiBenedetto e Baldini per progettare il sogno americano di Trigoria. Ma deve molto a Lotito e alla Lazio, passaggio fondamentale per rilanciarsi dopo i successi nel Perugia di Gaucci e prima di consacrarsi con il Palermo di Zamparini. E’ stato, da consulente e poi diesse, l’ideatore della squadra di Rossi, capace di volare sino alla Champions e di vincere due derby contro Spalletti. Oggi ha un sogno non confessato: portare lo scudetto alla Roma prima di ritirarsi. Viene considerato un talent-scout, in realtà conosce in profondità il calcio, che vede e decifra nel suo cono d’ombra. A Formello lavorava con estrema discrezione, spesso scrutando gli allenamenti da una terrazza. A Trigoria, dovendo riempire il vuoto in attesa dell’arrivo di Baldini, è stato costretto a vivere un’estate sotto i riflettori. L’ha chiusa con una conferenza-stampa vera, bucando le ipocrisie del calcio, per chiudere il caso Totti-Luis Enrique che stava rischiando di smontare il progetto Roma in partenza. Da allora non aveva più parlato e così intende proseguire. S’è concesso una deroga, un’esclusiva con il Corriere dello Sport-Stadio, a otto giorni dalla sfida con la Lazio. Il suo passato e il suo presente in un’ora di chiacchierata nel suo ufficio in centro, quello usato prima di insediarsi a Trigoria, dove ha cominciato a partorire le sue ultime idee.
Mancano otto giorni al derby. Qual è il primo pensiero del ds Sabatini?
«Una leggera inquietudine, non è un pensiero ma un sentimento. Perché definirla partita normale mi sembra improprio. Non lo è anche se con la Lazio mi sono già incrociato diverse volte con il Palermo. Ho perso e vinto, una certa abitudine ce l’ho, ma il derby è una circostanza diversa».
E’ toccato dal punto di vista personale?
«Sì, mi tocca. Dovrei considerarla una partita da tre punti. Quando ci avvicineremo all’evento, non guarderò la classifica: sarò totalmente risucchiato dai sentimenti».
Si sente romanista o non si è mai sentito laziale?
«Io sono stato laziale, sono stato laziale e direi anche con fede incrollabile in quel momento storico della mia vita. E’ un passato che non rinnego, non l’ho fatto quando mi sono presentato ai romanisti, non lo faccio alla vigilia della partita, anche se la Roma per me è una questione chimica. Non è stato difficile riaccendere una scintilla perché, se pur male, nella Roma ci avevo giocato, quindi è stata una sorta di immediatezza rituffarmi in quell’universo. Per la verità l’universo romanista lo devo ancora decifrare compiutamente ».
Cosa deve decifrare?
«L’universo Roma è ricco, variegato, imperscrutabile. E’ pregno di sentimenti, di opinioni, di ansia, di arroganza, di generosità, di ironia, di prosopopea. Bisogna entrarci dentro, capire tutto è la mia priorità».
Quali differenze ci sono tra l’ambiente della Roma e quello della Lazio?
«Sono due momenti storici diversi della mia vita. La Lazio era una situazione collinare, dico collinare perché l’eco della città arrivava attutita. In quel momento della mia vita agivo con le stesse funzioni, ma quasi completamente in penombra».
Perché ha chiesto a DiBenedetto se avesse capito cos’è il derby?
«Il derby lo capisce solo chi lo vive, non basta un racconto. Era una segnalazione, si andava a tuffare in un’emozione smisurata. Ho voluto avvertirlo, mi pare abbia capito. Ha capito qual è il sentimento popolare anche se di Roma devo dire, ed è bene che tutti lo sappiano, romanisti e laziali, si apprezza il senso dell’ironia. Non ha eguali in Italia».
Come arriva la Roma al derby? E la sente già sua?
«Ci arriva con una moderata tranquillità perché negli ultimi giorni alcune cose si sono aggiustate, altre si dovranno aggiustare per poter essere competitivi. La Roma la sento già fortemente mia, la sento fortemente di un gruppo di persone che sta mettendo energie, forze, idee dentro questo progetto».
A luglio parlò del calcio arrogante di Luis Enrique. Sul campo lo vede?
«Sto vedendo alcuni bagliori di quel tipo di calcio, Luis lo sa. Ieri mattina mi diceva che si sente ancora neanche a metà del cammino».
Dove arriverà a fine cammino?
«La fine del cammino non significa necessariamente vincere le partite, anche se tutti vogliamo vincere. Ci arriverà quando avrà costruito un’idea solida, forte di calcio, che potrà essere interpretata dagli attuali e dai futuri calciatori della Roma».
Può un calcio nuovo pagare in una partita
come il derby?
«Quella di Luis Enrique non voglio definirla un’idea nuova, ma solo un’idea del calcio. Il calcio è capiente di idee, fatti e misfatti. Non c’è niente di nuovo in quello che stiamo facendo, ma solo qualcosa di preciso. Ovvero la voglia di interpretare la partita, di cercare sempre di costruirla attraverso le nostre qualità e un canovaccio condiviso da tutti i calciatori in uguali proporzioni. E facendo riferimento anche alla fatica. Se questo calcio sarà ferocemente applicato pagherà nel derby come in altre partite a prescindere dal risultato. Se fossimo stati legati al risultato, a Roma già sarebbero successi gli sconquassi, invece abbiamo tenuto secondaria l’esigenza di vincere rispetto all’affermarsi di un modo di essere e di interpretare il calcio. Poi è chiaro che ci aspettiamo di vincere le partite. Anche parecchie partite».
DiBenedetto ha parlato di Champions in tre anni. Non è troppo tempo?
«No. DiBenedetto fa coincidere i tempi sportivi con il consolidamento delle imprese societarie, le operazioni che lui e il suo gruppo hanno in mente di proporre e produrre per la Roma. Ci vedo un sano e concreto realismo».
Qual è l’obiettivo sportivo della Roma quest’anno?
«L’obiettivo sportivo non coincide con esigenze di classifica. Quest’anno dobbiamo costruire un modo di essere, che sia solido e che costituisca il denominatore comune a tutti i calciatori. Poi siamo coscienti che la retorica, nel calcio e anche nella vita, non deve essere prevalente sul pragmatismo che serve per affermarsi».
Dieci acquisti la Roma, sette la Lazio. Chi ha operato meglio?
«La Lazio ha operato benissimo. Ha fatto delle scelte mirate e volendo puntare ad un risultato immediato, non voglio dire oggi ma per produrre risultati importanti nel giro di questa e della prossima stagione. La Roma ha cercato di integrare con un gruppo di giovani lo zoccolo duro altamente competitivo che già possedeva. Da questa sintesi tra nuovi e vecchi speriamo si produca un risultato accettabile nel presente e un grande risultato a breve termine».
Un grande risultato significa scudetto?
«Intendo un grande risultato, non voglio parlare di scudetto. Starà ai tifosi stabilire quale potrà essere un grande risultato».
La Roma ha scelto una linea giovane, la Lazio giocatori più esperti. La differenza l’hanno fatta le idee di Sabatini?
«Sono stato scelto da DiBenedetto e Baldini per quello che ho potuto esprimere nel corso della mia attività e quindi era quasi normale la direzione che avrebbe preso il mercato della Roma. La Lazio ha fatto scelte importanti. A vederli oggi Klose e Cisse, due calciatori anagraficamente non giovanissimi, sembrano due ragazzini. Hanno freschezza, voglia di fare, sono propositivi: mi stanno impressionando. Anche gli altri giocatori che sono andati a prendere sono di rendimento e molto affidabili. L’unica scommessa è Lulic».
Che ne pensa di Lulic?
«E’ contraddittorio. Tutto e il contrario, ma quando fa il tutto è impressionante in senso positivo».
Nel derby teme di più Klose, Hernanes o Cisse?
«Dovrei rendere organico un discorso per tutti e tre i giocatori che si integrano a meraviglia. Tutti e tre insieme sono portatori di tutte le soluzioni tecnico-tattiche dello scibile calcistico. Uno può agire di potenza, l’altro con opportunismo e c’è la tecnica. Il calcio è ampiamente rappresentato in tutte le sue forme, quindi mi fanno notevolmente paura».
Reja è l’allenatore giusto per la Lazio?
«E’ stato sicuramente l’allenatore giusto per la Lazio. Se potrà essere l’allenatore giusto di questa Lazio dipenderà dalla sua fortuna, non certo dalle sue qualità, che sono conosciute ».
E’ contento sia in arrivo Baldini?
«Assolutamente sì. Sono già tornato nel mio cono d’ombra e sto facendo una deroga con questa intervista. Baldini sarà portatore di cultura e mentalità. Poi sarà l’interfaccia di tutte le componenti, non solamente calcistiche, che caratterizzano l’attività di questa società insieme a Fenucci».
Qual è l’operazione da ds della Lazio che ricorda con maggiore orgoglio?
«Ce ne sono tante. Vedendo il suo livello di rendimento, di Stefano Mauri sono orgogliosissimo, mi dà gioia: a distanza di tanti anni, oggi rappresenta ancora un valore aggiunto. Potrei dire lo stesso di Rocchi e Ledesma. Era stata la prima ondata di Lotito. Mi inorgoglisce Diakitè, perché quando entra è quasi sempre all’altezza della situazione, è giovane, ha margini di miglioramento importanti, è costato pochissimo. Potrei dire Kolarov visti gli esiti sportivi e commerciali che ha avuto in carriera. In generale conservo un ricordo professionalmente appagante della Lazio. Abbiamo, non dico ho perché altrimenti Lotito si indispettisce, in un’altra epoca e con altre esigenze, centrato risultati importanti. Il primo anno con Rossi l’Uefa, nel secondo la Champions nonostante la penalizzazione, attigendo a un altro mercato, quello dei parametri zeri, dei prestiti, del tetto salariale a 500 mila euro. Accetto le critiche dei contestatori, ma sarebbe meglio rivisitare la storia della Lazio».
I contestatori le rimproverano gli acquisti di Carrizo e Makinwa.
«Parlo di Carrizo. E’ un ottimo portiere, il suo acquisto fu figlio di un’ipnosi collettiva. Mi assumo la responsabilità di quello che ho fatto. Peruzzi smetteva di giocare a calcio. Lui stesso, dopo averlo visto, segnalò Carrizo come uno dei suoi possibili successori, lo disse generosamente. Partì un’ipnosi collettiva, sembrava non potessimo giocare a calcio senza Carrizo. Decidemmo di rinunciare a Lloris, già preso per 2 milioni, in virtù di questo convincimento».
Pentito?
«Il pentirsi nel calcio è troppo facile. Carrizo non è vecchio, nella scorsa stagione ci fu una petizione popolare dei tifosi per trattenerlo al River Plate tanto aveva giocato bene. Un paio di errori fatali, nel momento decisivo del campionato, e la sua situazione si è ingarbugliata. Ma Carrizo è forte e sono convinto si ricostruirà nel tempo».
Meglio Lichtsteiner o Kolarov?
«Due operazioni speculari, hanno prodotto soddisfazione tecnica ed economica. Su Lichtsteiner ho dato solo il mio parere, ero già in uscita dalla Lazio».
Radu come l’ha scoperto?
«Giocando contro la Dinamo Bucarest nel preliminare di Champions, ci aveva impressionato. E soprattutto aveva impressionato Delio».
Perché su Lamela ha bleffato dicendo che non vi interessava?
«A un certo punto pensavo di non poterlo più prendere. Lamela era un affare molto delicato, come nel caso di Pastore c’erano molte società interessate e allora bisognava tenerlo coperto. E’ stato sfortunato, è arrivato qui in condizioni di grande precarietà fisica. Sono certo che il futuro sarà suo. La Lazio? Non credo fosse interessata all’argentino».
E’ davvero il nuovo Pastore?
«Sono due giocatori diversi. Abbiamo tutto il tempo per apprezzare Lamela, ha 19 anni e
un contratto lungo 5 stagioni. Non abbiamo nessun tipo di urgenza ».
E’ stato più difficile prendere Lamela o Behrami?
«Behrami era molto costoso. Lotito fece un sacrificio enorme, spese intorno ai 5 milioni. Una cifra compromettente per quella Lazio. Ricordo i suoi primi due mesi, non ingranava, anche Delio un giorno espresse qualche preoccupazione. Poi ha fatto bene. Acquistare Lamela è stato più difficile e costoso. Prendere uno dal River Plate non è come prenderlo dal Verona».
La Lazio è stata vicina a Pjanic prima che arrivasse la Roma?
«Non lo so. Io lo seguivo, non pensavo che il Lione lo cedesse. Quando si è appalesata questa possibilità, abbiamo deciso, facendo un sacrificio».
Nel suo passato un derby da giocatore con Liedholm. Entrò a dieci minuti dalla fine e sparò il pallone del possibile pareggio in Curva Nord. Ricorda?
«Sì e ancora oggi mi affligge, ricordo un numero inimmaginabile di Bruno Giordano sulla linea di fondo: bevuto Sandreani con un dribbling a rientrare sul destro e un siluro sparato sul primo palo. Uno spiraglio appena, il pallone finì all’incrocio dall’altra parte, Paolo Conti lo vide solo passare. Mi chiesi se era stata una magia e da dove fosse passata quella palla, non c’era spazio. Rimasi abbagliato da Giordano. Tanto abbagliato che quando entrai in campo, Liedholm mi mise dentro senza riscaldamento, mi ritrovai l’occasione giusta per pareggiare. Sul cross di Pellegrini, per la fretta di colpirla, non feci scendere la palla e la mandai di sinistro in Curva Nord. Guardavo il pallone finire la sua corsa dietro i raccattapalle e mi chiedevo “perché sono qui?“. Il mio calcio non si può raccontare, era frammentario…»