(M. PINCI) – “La Roma vuole giocare come il Barcellona“. Il tabù, diventato per bocca del presidenteDiBenedetto il manifesto del nuovo movimento collettivista alla spagnola che Luis Enrique ha trapiantato nella capitale, non è mai stato così vicino al compiersi. E se non nell’insieme di una stagione, quantomeno nel dettaglio di un’azione da rete.
COME IL BARCA UN ANNO FA – Quel primo gol, con 18 passaggi utili consecutivi (se perdoniamo la lieve intromissione di Esposito) prima del tocco in porta di Pjanic, ha ricordato da vicinissimo, anche nei numeri, la ragnatela disegnata dal Barça giusto un anno fa: oggi la Roma di Luis, ieri ilBarcellona di Pep Guardiola. Per convincersi che l’asturiano abbia davvero iniziato a ricalcare le orme del maestro, basta riavvolgere il nastro fino all’11 novembre del 2010. È una sera fresca come quella di ieri, quando al “Coliseum” – un segno del destino? – Messi e compagni inaugurano il 3-1 sul Getafe passandosi il pallone 18 volte, prima di trafiggere la porta avversaria. Un’utopia, che Luis è riuscito a replicare, nella forma e nei numeri, a distanza di un anno con la Roma, in un Colosseo moderno come l’Olimpico. Prima di lui, c’era già riuscito Spalletti, contro la Dinamo Kiev, nel 2007: copione identico o quasi a quello recitato da De Rossi e compagni ieri notte all’Olimpico, per un gol di Perrotta rimasto nella storia della Champions League romanista. Altri tempi, altra squadra. Ma se l’utopia asturiana deve attendere ancora, ieri sulle tribune dell’Olimpico è arrivato il primo segnale che la lezione inizia a dare i suoi frutti.
GAGO-PJANIC, IL SEGRETO DI LUIS – La semina del tecnico, fino ad oggi, ha puntato tanto sul gioco, quanto sulla rotazione. Ma la tredicesima formazione diversa consecutiva, consegna contestualmente le nuove certezze dell’allenatore. Osvaldo e Bojan, ad esempio, oltre al pilastro De Rossi. Ma anche, se non soprattutto, la coppia Gago-Pjanic. Simili, se visti da lontano, con quelle spalle strette, la testa sempre alta, il gioco fluido. Più regista l’ex del Real Madrid, più rapido e fantasioso il bosniaco. Per entrambi, Roma bussa un po’ a sorpresa in una notte d’agosto. Miralem viene avvisato della possibilità di trasferirsi a meno di una decina d’ore dalla fine del mercato, proprio mentre Gago sbarca in Italia accompagnato dai suoi rappresentanti, e convinto da una chiamata di Baldini. Il giorno dopo, alle 18 del 31 agosto, sono entrambi giocatori della Roma. E pensare che Miralem avrebbe addirittura detto che, no, era tardi per muoversi. Ma convincerlo è stato facile, parlandogli di rivoluzione. Gago lo sapeva già, invece: semmai, da convincere erano Sabatini e Luis Enrique, per nulla certi di aver scelto l’uomo giusto per il centrocampo della Roma. Oggi, nessuno dei due si sognerebbe di rinunciare all’argentino con i piedi buoni e una visione di gioco che nella squadra hanno in pochi, proprio come al trequartista cresciuto nel mito di Zizou.
FIORENTINO: “ROMA PIÙ FORTE CON SOCI CINESI” – Se il presente inizia a sorridere, in attesa di fare i conti con un mese da quattro trasferte in cinque partite di campionato (Udine e Firenze, la Juve in casa, Napoli e Bologna), buone notizie arrivano anche dal futuro. Soprattutto se si guarda con gli occhi di Unicredit. Perché la banca, socio di minoranza con il 40 per cento del club, continua ad auspicare un disimpegno progressivo dalla società giallorossa. E, a sentire il vice direttore generale dell’istituto Paolo Fiorentino, non mancherebbero contatti, seppur in fase embrionale. “Unicredit e gli statunitensi vogliono una Roma sempre più forte. Anche per questo Unicredit sta vagliando delle opzioni anche in Cina per cedere una quota“, l’apertura del Chief Operating Officer della banca. “Vediamo la possibilità di avere investitori asiatici come un grande assett – aggiunge poi Fiorentino – e stiamo verificando se c’è un interesse. Abbiamo la possibilità di cedere una parte del 20% della nostra quota, ma non vogliamo cederla a chiunque. Vorremmo provare a valorizzare ancora la Roma“. Ma Fiorentino torna anche sulla scelta del gruppo americano, preferito nella corsa alla Roma all’italiano Angelucci: “Abbiamo avuto contatti con imprenditori italiani, ma che volevano portare avanti una gestione molto tradizionale, da mecenati, che rendeva per noi insostenibile far parte della società. Direi che è stata la scelta migliore, ma mi sentirei di dire che è stata anche l’unica. Le altre erano così improbabili e rischiose per la Roma, che mi sono preso la responsabilità di cassarle in maniera anche abbastanza ruvida“. Chiaro, no?