(G.Dotto) – Esiste l’euforia da sfiga? Io dico di sì. E lo dice in cuor suo anche Luis Enrique, il fachiro che è in lui, l’uomo che marcia a testa alta e passo spedito nel deserto, seguendo cose che forse sono allucinazioni ma forse no. Il pallone di Totti che inciampa sul guantone extralarge di Buffon è l’ultima trovata della dea sbendata, l’ennesima: infortuni a ripetizione, gol balordi, presi, mancati e cancellati. La cattiva sorte è una disgrazia se scade nel vittimismo, è una mano santa quando scatena il senso della sfida. I gruppi si formano così, nel piacere dell’impresa. “Impresa” è la parola giusta, la parola romanista. Non “progetto”, che è lessico da puzzoni della vanità spacciata per ragione.
TORNANDO A QUELLO STRISCIONE – “Mai schiavi del risultato”. Non sono venuti fin qui i risultati sul campo, ma sono arrivati altri risultati, ben più importanti. E’ tornata la passione. E’ tornata la speranza. Oggi non si discute più se fallire o meno, ma se giocare corto o lungo, se privilegiare Apollo o Dioniso, l’estetica o il furore, e se i due concetti possano sposarsi nello stesso calcio, come si è visto qua e là, anche lunedì sera. Oggi non si contano più le cimici a Trigoria, ma quanti giorni mancano alla festa. Non sono risultati grandiosi già questi? Possibile che il tifoso romanista, il più romantico del pianeta, stia qui a eccitarsi per il pareggino strappato o la vittoriuccia rachitica, e non invece per una squadra che, tra mille affanni, sta mirando a costruire una sua identità forte, l’ebbrezza del gioco combinata alla passione della maglia? […]
INSISTENDO SU LUIS ENRIQUE – Strana città, Roma. Capitale del sacro e pagana come poche. Con questo tic del disincanto che una volta era simpatico folclore, oggi, specie quando microfonata, ferocia gratuita, piacere del linciaggio. Uno come Luis Enrique, il tifoso romanista dovrebbe inventarlo se non ci fosse e, se c’è, amarlo, tenerselo stretto, proteggerlo dalle piccinerie di un mondo pieno di furbetti e di mediocri. Uno che si presenta dopo Udine e sembra un pulcino su cui è passato sopra un camion e dice “sto male” e si capisce che sta male veramente. Uno che è imbiancato a Trigoria, invecchiato di non so quanti anni. Uno che dice “voglio dare il gioco alla Roma e la gioia ai suoi tifosi”. Uno che sbaglia, ma si tormenta sui suoi errori. Uno che non va da Fiorello. Uno che risponde anche quando le domande sono più imbarazzanti di un calcio in culo (“Ma è vero che lei sta antipatico ai tifosi?”). Il calcio è cosa semplice. Accade, se ci sono i calciatori. E i calciatori a Trigoria ci sono, altri arriveranno.[… ]
RESTANDO SU DANIELE DE ROSSI – Libero e rispettabilissimo Daniele De Rossi di fare la sua scelta, di tapparsi o no con strati di sughero le orecchie dai pifferai che lo assediano non solo di musicalissimi zecchini d’oro ma anche di prospettive eccitanti. Ma liberi e rispettabili anche noi di dire che uno come lui, i suoi occhi, le sue vene, il suo furore, lontani da Roma e dalla Sud sarebbero uno sfregio difficile da sopportare. Liberi noi di dire che lui, forse il giocatore più romanista di sempre, tale resterà anche calandosi dentro maglie assurde. Che sapere questo sarà la sua condanna ma anche il suo destino, la sua identità dello stare al mondo, in mutande e senza. Troppo intelligente per non capire cosa perderà nel restare a Roma (vedi Totti, si dirà, gli diranno, idolatrato e poi insultato per un rigore sbagliato, è questo che vuoi?), ma troppo intelligente per non capire che la vita è anche altrove ma per quelli come lui è e sarà sempre qui, a due passi dalla Sud.