Mentre la primavera del 1931 si annunciava, lo stadio ultramoderno in legno di Testaccio, stracolmo di passione e di presenze, di sicuro eccedenti le 20.000 di massima capienza omologata,ruggiva amore e sostegno infiniti alla sua squadra, impegnata, in un match di vertice rovente, con la capolista, altera, fascinosa e temuta, bianconera.
La Juventus, non proprio fino allora annoverata fra i club più prestigiosi in Italia e decorati, acquisita dalla famiglia emergente Agnelli alla sua corte, si avviava a dominare la scena del football del Paese lungo un fantastico, tirannico quinquennio. I piemontesi peraltro, un anno innanzi, mostrarono l’ardire inaudito di violare, primi nel mondo e comunque solitari, il sacro tempio del calcio romanista. (…)
Il nuovo impianto, opera dell’ingegnere Silvio Sensi, mutuava, nello stile, i funzionali modelli in voga fra gli inglesi: il pubblico, ravvicinato alla scena e alle gesta degli attori, convogliava calore intenso, ininterrotto e diretto ai suoi colori. La folla infervorata sugli spalti, con l’apporto dei numerosi, non paganti avventori sistemati presso il mitico Monte de’ Cocci sovrastante, caricava gli adorati pupilli intonando orgogliosa,(…), un inno corroborante che invocava i paladini impegnati sul campo, a uno a uno. Bandiere giallorosse tese al vento, i cuori in alto, le assi martoriate dai colpi ritmicamente inferti con i piedi, i fan dei lupi stordivano i rivali, inebriando d’immenso gli alati beniamini.
La mediana di acciaio romanista dominava superba la partita, sgretolando il contrapposto reparto, assai presto allo sbando, delle zebre. Contenuto a stento il punteggio per un tempo, la Juventus crollava in verticale, con schianto fragoroso, alla ripresa. Bernardini, ovvero “Fuffo nostro”, dirigeva l’orchestra divina da campione: si elevava su tutti, per classe e inarrivabile eleganza, apponendo due sigilli d’autore, squillanti, al risultato.
I supporter lo adoravano, cantando fosse in grado di insegnare calcio finanche agli argentini. E il ct Pozzo, che non lo convocava, ne imputava l’assenza forzosa a un eccessivo ingegno, che avrebbe intimidito, in maglia azzurra, i suoi colleghi, non poi così dotati. (…)