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IL ROMANISTA. Il sogno è di tutti, l’utopia è invece privilegio di pochi

L'esultanza di Taddei dopo l' 1-0

(G.Manfridi) Che fortuna per me non aver dovuto redigere la cronaca dei miei umori sportivi durante questi mesi di inizio campionato! Quante sciocchezze avrei forse scritto. Da tifoso, ho tante volte imprecato, spesso dubitato, e di più ancora ho ripensato con nostalgia a Brunico, quando tutto mi appariva aureo nella virginalità di un progetto che portava con sé il respiro di una indubitabile ascesa. Indubitabile a luglio, di già un po’ meno ad agosto, il giorno in cui abbiamo sacrificato sull’altare del nuovo il tenue sogno dell’Europa League (…). La squadra, ci siamo detti, è ancora indefinita e risente degli sperimentalismi che ci avevano tanto dilettato in Alto Adige, allorquando la nostra nascente Roma era una sorta di fascinosa macchina celibe che forse mai avremmo voluto consegnare alla cruenza delle competizioni vere. Troppo delicata ci sembrava quella creatura ecografica di cui era bello auscultare i primi battiti cardiaci. Un’ipotesi per gli altri, un auspicio per noi, che ci eravamo inorgogliti per l’avvicendarsi degli allenatori presso le transenne che affacciavano sul campo centrale di Riscone. Venivano in tanti, incuriositi dalla maniera con cui Luis Enrique stava forgiando le nostre felicità future. Finanche Sacchi ci ha gratificato della sua presenza. In conferenza stampa, stirando gli angoli delle labbra a infossarli nelle guance levigate, l’Arrigo nazionale ha salutato il nostro mister proclamando: «Benvenuto all’inferno». E l’inferno, che qualche annuncio di calore già l’aveva dato nei preliminari di Coppa, incrudelisce con la prima di campionato, che in realtà sarebbe stata la seconda e che per aggiunta di malizia viene salutata come una fortuna in quanto, evitandoci la trasferta a Bologna, ci avrebbe consentito un più abbordabile turno casalingo col Cagliari. Mal ce ne incoglie. (…) Qualcosa, comunque, di quel che vediamo ci piace, e anche molto di quanto non ci piace ce lo facciamo piacere per articolo di fede. E qui già si nota un altro aspetto fondante della nuova Roma: la volontà, a tratti cocciuta, di voler cavare dalla passione del nostro tifo un corredo di indulgenza mai concesso a nessun altro allenatore prima. Un atteggiamento che la stampa stigmatizza con un plauso sin troppo corale per non comportare il sospetto della derisione e del fraintendimento. Certo, l’asturiano ha carisma e c’è caso che goda di un credito privilegiato, tuttavia la questione rimanda a qualcosa di più importante: alla volontà di fuoriuscire da un semplice sogno per accedere ai criteri non poi tanto astratti di un’utopia. Il sogno è di chiunque, l’utopia è di pochi. E’ dei visionari, come dei visionari è la possibilità di estendere oltre i limiti del saputo i profili del mondo. Vale per le lettere, vale per la scienza, vale per lo sport. Dopo il Cagliari, lo zero a zero con l’Inter, che non è gran cosa, rappresenta un medicamento lieve. Ci vuole davvero una notevole forza d’animo per sopportare il deprimente spettacolo offerto contro il Siena. E il gioco di ascendenza blaugrana? E l’ipnotico possesso palla? Storco la bocca ma me lo tengo per me. Già qualcuno comincia a pronunciare con allarmante frequenza la parola “sterilità”. Con il Parma una boccata di ossigeno, con l’Atalanta la prima bella Roma della stagione. Un vero up and down. Il derby ci sevizia, ma è proprio al derby che prende corpo il capolavoro della curva. La frustata è violenta, spella i nervi, eppure, malgrado l’accasciamento, ci piace notare quanta volontà di vincere si sia vista per tutto il secondo tempo a onta dell’inferiorità numerica; il che, se non ci basta, ci conforta. Quandomai sarebbe avvenuto prima? Con quale altro allenatore in panchina? Con quale altra dirigenza in tribuna? Con quali altri tifosi sugli spalti? Col Palermo un abbozzo di rinascita. A Genova un’altra beffa, poi il Milan ci strapazza. Testate autorevoli si adoperano per trasformare il “Benvenuto all’inferno” in un “Vattene dall’inferno”. No, questo non lo accetto. Non lo accettiamo. E ancora i media debbono sorprendersi per la prova di maturità offerta dal pubblico romanista che persiste nel far coincidere l’amore scontato per la maglia con quello tutt’altro che scontato per la squadra, spesso fumosa, che vede muoversi in campo. A Novara ci godiamo il primo miracolo del nostro magnifico portiere e vinciamo. Non bene, ma vinciamo. Col Lecce siamo splendidi, ma col Lecce. A Udine altro capitombolo all’indietro. I sognatori vacillano, i veri utopisti resistono. Con la Fiorentina è un calvario. La partita si conclude con uno spread tra i giocatori in campo che si apparenta al numero dei gol subiti. Tre. Forse un record. Impreco. Mi scopro più sognatore che utopista. Giro lo sguardo attorno. Animi ben più solidi mi fanno notare che la partita va analizzata con occhio entomologico, e che finché si è stati undici contro undici, nel primo quarto d’ora, la partita l’avevamo in pugno noi. E che pure contro il Milan, nel primo quarto d’ora… Va bene, d’accordo, ma un quarto d’ora… poco. Se io mi limito a pensarlo, altri lo scrivono. C’è aria da ultimatum. Tanto più che sta per arrivare la Juventus. Lo spagnolo, corre voce, è pronto a dimettersi. Leggerlo mi preoccupa. Sicché, buona parte della mia fiducia è ancora integra. Coi primi della classe andiamo in vantaggio subito, quelli reagiscono furenti e noi teniamo botta. Nel secondo tempo ce la battiamo da pari a pari, e arriva il pari. Poi un rigore tirato bene, ma parato meglio. Qualche insulto fuori luogo e riemergono timori antichi: il Capitano che dice “Me ne vado”. Grande mossa. Pensiamo solo a questo, ci ricompattiamo effondendo a più non posso il senso del nostro amore per lui. Dunque, per la Roma. Dunque, per il progetto. A Napoli non è splendore, ma è gioia pura. Il Capitano stavolta deride se stesso e i suoi proclami volutamente capricciosi.Dedica la vittoria all’allenatore assurgendo così a leader degli utopisti. Lo splendore deflagra a Bologna. Mai vista una squadra avversaria tanto spossessata della partita come lì. Lo ammette anche Di Vaio. Un laziale doc. E qui siamo giunti. All’ultima di campionato che avrebbe dovuto essere la prima. La sosta non mi spaventa. To be continued.

 

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