Contattato ai microfoni di Rete Sport, Riccardo Viola, figlio di Dino Viola, presidente della Roma dal 1979 al 1991, anno della sua morte, ha rilasciato una lunga intervista in cui ha riportato a galla il ricordo del padre: “Uno degli aspetti positivi di Dino Viola era il non essere un romano, ma un innamorato di Roma. Per un innamorato di questa città l’impegno profuso per una grandezza nuova di Roma non ha eguali: è raggiungere un obiettivo e la sera stessa superarlo e andare avanti. Sono 21 anni che Dino non c’è più, ma sapere che dopo tanto tempo ancora telefonate per ricordarlo mi fa venire i brividi in un’epoca che cancella tutto troppo in fretta”. L’importanza del personaggio di Dino Viola trova il suo apice senza dubbio nella vittoria dello Scudetto nel 1983, dopo soli quattro anni di gestione: “Una questione di mentalità. Anche nel giorno dello Scudetto mio padre ha sempre pensato al domani, non si è mai adagiato e per la Roma qualche anno di vita ce lo ha lasciato di sicuro. Il momento dello Scudetto deve essere visto come la crescita di una società che parte nel 1979 e vince dopo quattro anni. Una crescità continua, e lo Scudetto lo vincemmo nell’anno in cui per assurdo lo meritavamo di meno, ma lo vinci per una somma di fattori”. Riccardo Viola ricorda poi i modi di gestione della società da parte di tutta la famiglia Viola: “La nostra era un’azienda familiare, non c’erano i capitali di una multinazionale, bisognava quindi pensare e progettare qualcosa di diverso. Quando prelevammo Trigoria c’era solo una facciata, abbiamo costruito tutto il resto ad iniziare dai campi. La famiglia Viola si è trovata ad un certo punto come azienda propria la Roma, non altro. Si viveva di calcio 24 ore su 24, 365 giorni l’anno. Quando facevi finta di essere in vacanza eri sempre lì con la Roma. Siamo stati la prima società a registrare un marchio grazie anche a Gilberto Viti, responsabile della biglietteria. Mio padre è diventato poi scomodo per molti: le sue battaglie, le sue innovazioni, il tesseramento di Cereo come esempio. Mancava solo lo stadio. Ma il discorso dello stadio era qualcosa di troppo difficile per la logica politica. Era il 1986, non vorrei che trent’anni dopo qualcuno venga bloccato in quella che è la giusta destinazione. Legare il calcio allo Stadio Olimpico è un limite di questa città. Quest’anno l’Olimpico ospiterà il 6 nazioni di Rugby, ci sono quindi le possibilità per sfruttare questo stadio in altri modi. Un club ha bisogno della sua casa”. Una storia quella di Dino Viola che si è incrinata nel momento in cui sulla scenza calcistica sono giunti nuovi personaggi, ed è terminata con la morte dell’ingegner Viola: “L’avvento dei grandi imprenditori, prima di tutti Berlusconi ti metteva fuori mercato. Mio padre sportivamente parlando è morto al punto giusto, se fosse rimasto avrebbe portato la Roma al fallimento perché da solo non ce l’avrebbe fatta in un calcio così diverso. Per lottare da solo avrebbe perso. Mio padre si sentì male a Cortina, quando arrivò il momento della transazione con Falcao. Da eredi dei suoi beni fummo noi figli a concludere quello che fu un rapporto umano e lavorativo importantissimo che legava mio padre a Paulo Roberto, siamo contenti che sia finta così. Non poteva andare diversamente. Il mio ultimo ricordo di mio padre sono le sue parole sul problema di doping che aveva coinvolto Peruzzi e Carnevale. Il suo ultimo pensiero fu ancora una volta sulla sua Roma. Sono stati undici anni che per Viola è stato il compimento di una vita. Mio padre ha studiato da presidente e ha raggiunto il massimo”
Fonte: Rete Sport