(G.Dotto) Tormentone (ed estasi?). La moltiplicazione miracolistica dei pani e dei pesci virtuale fa di noi delle oche all’ingrasso. Mangiamo fino a scoppiare e non perché abbiamo fame, ma perché il nostro fegato è merce indispensabile per le tavole dei media. A ingozzarci sono i carnefici del vuoto, spacciato di volta in volta per notizia, riflessione, indiscrezione, citazione, insinuazione, blabla. La storia di Daniele De Rossi, storia di un umanissimo e persino eroico dubbio, è diventata nel tempo sceneggiatura interminabile di un rancido polpettone.La colpa? Di nessuno. Meno che mai del giocatore. Tutti nello stesso inferno o samsara, De Rossi a dubitare, Mancini a sbaciucchiare, i giornalisti a domandare e a insinuare, i dirigenti a rispondere e a scantonare, i tifosi a sperare e a disperare. Stremati e ormai vicini al chissà se lieto fine, non ci resta che provare a insinuarci nella delicata e allo stesso tempo virile testa del ragazzo. In fondo, è quello che fanno da sempre i grandi attori, i grandi investigatori e i grandi innamorati, immedesimarsi nella testa dell’altro da interpretare, investigare, amare. Pensare De Rossi strumento passivo nelle mani di un cinico procuratore, è l’oltraggio peggiore. Daniele, c’è da giurarlo, ascolta chi deve ascoltare, ma ascoltando soprattutto se stesso (…). Tu e la tua città, la tua storia, il tuo orgoglio e il tuo destino, le tue donne e i tuoi tifosi, la tua pelle che forse è anche la tua maglia. Da dove cominciare? Roma, prima ancora della Roma, è lì, non cambia, quella di oggi ma anche quella di sempre, cinica, puttana, sentimentale. Tutto dipende da dove Daniele fermerà il suo profilo, il suo piano d’ascolto, nella roulette di un movimento che sfiora e tocca tutto e il contrario di tutto. Basta poco e cambia la prospettiva. Possono arrivare effluvi orrendi (la città dell’insinuazione facile e del pettegolezzo volgare, la città senza memoria, ammalata di chiacchiera). Se Daniele si ferma lì, è finita. Scapperà. E i tre milioni in più saranno solo un di più. Ma se Daniele si fermerà solo un po’ più in là, là dove è facile capire che questa storia, tra lui che forse lascia i tifosi e i tifosi che temono di essere lasciati, è, travestita ma nemmeno tanto, una gigantesca storia d’amore. Al di là della melassa, pensando più a De Andrè che a Minghi, tutti i canoni dell’amore, che diventa struggente quando rischia di perdersi e da cui tutti, prima o poi siamo stati attraversati. I languori, lo smarrimento, la paura dell’abbandono e persino la rabbia sprezzante nell’evocarlo. Piaccia o no, confessabile o meno, tutto dalla parte dei tifosi, nei confronti di De Rossi, è bruciante dichiarazione d’amore. Se la tormentata fluttuazione di Daniele all’interno dei suoi mondi possibili si fermerà qui, a questa visione, non si porrà nemmeno più il problema della scelta. Anche perché i soldi, al di là di un certo confine, diventano un’astrazione, una libido da numero, buona per orridi paperoni senz’anima. Se Daniele si ferma qui, non potrà andare altrove, tantomeno a Manchester, ma nemmeno a Madrid, salvo poi sentire all’infinito, lui sì, può sentirlo, ha le orecchie giuste, la ferita intollerabile di un amore reciso. Pochi calciatori nella storia hanno evocato questo, Daniele De Rossi è uno di loro.Se lo sa, e lo sa, non può fare a meno di saperlo. Lui la Sud la cercherà sempre, anche dove non c’è. Se poi avanza un dubbio residuo non gli resta che immaginare Mancini con la faccia da sceicco, un foulard fighetto annodato al collo e confrontarlo con l’occhio leale e spiritato di Luis Enrique, su cui sovrapporre la grandiosa faccia di James Pallotta, cinema americano puro, Scorsese, De Niro e Coppola.