(G. Dotto) – Luis Enrique questa volta è indifendibile. Senza “se” e senza “ma”. La sua “impresa” di Bergamo è un trattato di masochismo puro. Stalinismo della regola spacciato per pedagogia maestra. Non si sa se più affranti o imbarazzati, Baldini, Sabatini e Fenucci, hanno tentato in ordine sparso di arrampicarsi a mani nude sugli specchi, ma ne è uscito solo il suono stridulo delle note false, che è poi quello del loro inconfessabile gemito. I primi a non crederci, alla favola della “punizione esemplare”, sono proprio loro. Non sappiamo se don Luis stia perseguendo, come le mistiche tardomedioevali o i padri eremiti del deserto, la sua ascesi privata verso il Cielo. Aspirazione legittima. Il problema è che lo sta facendo sulla pelle di una comunità intera. (…) Luis Enrique ha stufato. Gli abbiamo voluto e forse gli vogliamo ancora bene. Ma deve smetterla di presentarsi come il fustigatore di costumi a Trigoria. Non le ha inventate lui le regole. E persino noi, uomini peccabili e con palesi difetti di fabbrica, che a volte arriviamo con cinque minuti di ritardo anche agli appuntamenti fondamentali della nostra vita e altre volte li manchiamo del tutto, ci misuriamo tutti i giorni con le regole. Una squadra di calcio non è un monastero benedettino. Predicare il buonsenso non vuol dire esortare all’anarchia. Cercare il dialogo, adattarsi alle imperfezioni della vita e alle mancanze degli uomini, se gli uomini si chiamano Daniele De Rossi, non è segno di debolezza ma d’intelligenza. Flessibilità non vuol dire mediocrità o cedere a chissà quali biechi compromessi. Debolezza è, al contrario, l’ossessione della regola. Comodo bunker della tua difficoltà a confrontarti con le insanabili contraddizioni del mondo.
L’hombre vertical non sarà forse pericoloso per se stesso ma lo è certo per questa Roma. Gli effetti destabilizzanti delle sue purghe si sono visti a Firenze e domenica a Bergamo. Lo abbiamo sostenuto sempre Luis Enrique, sfidando a volte l’evidenza. Al punto di scrivere, non più di una settimana fa, che la Roma non sarà mai più cosi bella, come ora che sta cambiando pelle. Ma un conto è cambiare pelle in vista di averne un’altra e un conto è bruciarla viva con le cicche accese del proprio autolesionismo, nel nome dell’etica astratta e furente. Franco Baldini lo ha scelto e lo ha difeso, si prenda oggi la responsabilità di parlarci e di proteggerlo quando si ostina nella “retta via”. Enrique giura che per lui esiste solo il presente ma è proprio il presente che la Roma sta buttando nella fogna con secchiate di autolesionismo. Baldini non può velarsi oggi dietro vezzosi ricami da salotto (“la discussione filosofica sulle scelte di Enrique è aperta”) quando il domani balla come un dente malato. E poi la comunicazione. Per carità. Lasciare che Enrique dica alle telecamere: “De Rossi non ha giocato perché non era pronto” significa istigare le peggiori fantasie. Non se lo merita De Rossi e non se lo meritano i tifosi della Roma. I migliori di loro. Quelli che dicono fieri che non conta il risultato, ma conta eccome non fare la figura di un’armata brancaleone. Domenica c’è il derby, la partita ideale perché “Grazie Roma” diventi “Disgrazia Roma”. Enrique dimostri qui e adesso quanto è ampia la sua tastiera, al di là dei dogmi. Tanto più che, lontani da Trigoria, due ex romanisti, Montella e Zeman, stanno facendo cose meravigliose senza avere l’oro di Roma.