(M. Ferretti) – Massimo Mezzaroma, 40 anni, romano, presidente del Siena, ex dirigente della Roma.
Che ricordi ha di quell’esperienza a Trigoria?
«Il primo giorno che entrai al Bernardini nelle vesti di responsabile del settore giovanile ero molto emozionato. Un po’ perché ero giovanissimo, avevo poco più di venti anni, e fino a quel momento avevo pensato alla Roma soltanto come tifoso, ma soprattutto perché sentivo fino in fondo la responsabilità di un incarico così prestigioso e delicato».
Una avventura premonitrice…
«In quel periodo non avrei mai immaginato che un giorno sarei diventato il presidente di un club di serie A, però quell’esperienza, durata soltanto nove mesi, mi è servita per capire tante cose. Molte delle quali non mi sono affatto piaciute, tanto è vero che una volta lasciata la Roma sono stato due, tre anni senza andare allo stadio».
Il motivo?
«Ero disgustato da quello che avevo visto. Ragazzini che a quattordici anni si presentavano con il procuratore, genitori disposti a tutto pur di vedere il proprio figlio giocare in una grande società e via dicendo. Tutte cose lontanissime dal mio modo di vedere lo sport».
Che dirigente è stato in quel periodo?
«Molto partecipe, senza dubbio. Il mio primo collaboratore era Gildo Giannini, poi c’era Roberto Pruzzo che aveva la responsabilità tecnica del settore giovanile. Un bel gruppo, all’interno del quale riuscii a portare, con uno sforzo enorme, anche Bruno Conti».
Una sua vittoria?
«Lui faceva l’allenatore e non ci pensava minimamente a mettersi dietro una scrivania: io, invece, ero convinto che con un dirigente così prestigioso la Roma non avrebbe mai avuto la minima difficoltà a portare a Trigoria qualsiasi talento. Chi, del resto, avrebbe avuto il coraggio di dire no a un mito come Bruno? Alla fine lo convinsi e, a distanza di anni, mi sembra che la mia intuizione non fu sbagliata».
È stato il presidente del giovanissimo Totti…
«Ricordo che per un errore di comunicazione tra la segreteria della Roma e la madre, la signora Fiorella, Francesco non si presentò al raduno della Primavera. «Sto al mare…», ci venne detto, e qualcuno pensò che quel ragazzino non aveva gran voglia di giocare o che s’era un po’ montato la testa. In realtà, c’era stata una comunicazione sbagliata e tutto rientrò in fretta. Adesso, ripensandoci, mi viene da ridere».
Il suo ricordo più bello legato a quel periodo?
«Carlo Mazzone. Io sono sicuro che se ogni generazione avesse avuto due, tre uomini come Mazzone il calcio non sarebbe finito com’è finito oggi. Ero, e lo sono ancora, affascinato dal suo modo pulito, sano, vero, divertente di raccontare e proporre calcio. Oggi, purtroppo, nel calcio non contano più le persone sincere, ma interessi di ogni genere. Ecco perché il mio sogno di presidente è far tornare il calcio nel mondo dello sport. Oggi, con amara sincerità, non ne fa più parte. Oggi il calcio è qualcosa di ibrido, non è nè spettacolo nè business».
Può spiegarsi meglio?
«Nelle aziende vere il business si fa in tutt’altra maniera. Faccio un esempio: un’azienda che deve produrre qualcosa, come prima mossa della sua attività costruisce una propria struttura, anche un solo capannone dove poter lavorare. In Italia, invece, si parla anni e anni prima di fare uno stadio, e questo lo trovo assolutamente negativo. Uno spettacolo non lo è perché il calcioscommesse ci sta dicendo che abbiano assistito a partite non vere, a rappresentazioni teatrali di cui non conoscevamo il copione».
Un quadro desolante, in sintesi.
«Il senso dello sport è sparito. A me piacerebbe recuperare alcuni valori, che sono basilari a tutti i livelli. Per un appassionato vincere il torneo dei bar o la coppa dei campioni significa incamerare ricordi che non saranno mai cancellabili. L’adrenalina da vittoria è l’essenza dello sport».
Il suo rapporto oggi con la Roma?
«Oggi sono un avversario, anche se un po’ particolare visto che non posso nè voglio dimenticare quando, insieme con mio padre, andavo allo stadio con il panino con la frittata a vedere il mio idolo, Bruno Conti. Per quelli della mia età, Bruno ha rappresentato il calcio. La sera che la Roma vinse lo scudetto, nel maggio del 1983, mio padre mi portò a far festa in giro per Roma: avevo undici anni e, ovviamente, indossavo la maglia giallorossa».
Cosa vorrebbe portare da Roma a Siena?
«Il legame che c’è tra alcuni giocatori e la maglia, cosa ormai rarissima nel mondo del calcio. Ecco perché a me a Siena piacere poter contare su uno come Totti, cioè un calciatore che per un’intera carriera ha onorato al meglio, senza mai tradirla, la propria società e i tifosi».
Totti il più grande di tutti?
«Noi adesso non ci rendiamo bene conto della grandezza di un ragazzo come Francesco: soltanto tra qualche anno, quando la cronaca lascerà spazio alla storia, la capiremo fino in fondo».
Il suo modello di presidente?
«Dino Viola. Per il suo stile, per le battaglie verbali contro la Juve, per le sue idee gestionali, per la sua abilità sul mercato anche non avendo grandi disponibilità economiche. Viola stava venti anni avanti a tutti, e uno come lui non c’è più stato».