(C. Fotia) – Se nell’immediatezza poteva essere legittimo un dubbio sulla scelta di Luis Enrique a Bergamo, dopo aver udito due giorni di gracchianti sonorità, dopo il caos creato ad arte alla vigilia del derby, con un vero e proprio assalto mediatico, oggi essa m’appare giusta e sacrosanta. Da difendere a spada tratta per il bene della Roma e del calcio italiano. Ha già scritto bene Stefano Romita che, quale che sia il giudizio sulla scelta di Luis, certamente l’allenatore non ha certamente chiesto alla squadra di squagliarsi come un gruppo di dilettanti al primo assalto atalantino. Se c’è da essere preoccupati di qualcosa è della scarsa tenuta psicologica di un gruppo che non è ancora una squadra.
E allora, immaginiamo cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stato lo shock: altro che hombre vertical! Si sarebbe raccontata una squadra in preda all’anarchia, uno spogliatoio impazzito, un allenatore prigioniero dei vizi dei suoi giocatori. Intendiamoci, l’episodio in sé è poca cosa: un ritardo non è la fine del mondo, soprattutto per un calciatore esemplare come De Rossi. Se Luis l’ha voluto sanzionare così duramente è perché vi ha visto il segnale di una “distrazione” che ritiene la peggior nemica di quello spirito guerriero che vorrebbe sempre vedere in campo del quale, per altro, Daniele è il portabandiera. Per questo, credo, in quel ritardo ha visto un segnale negativo per tutti, da affrontare subito: se non è “pronto” lui, figuriamoci gli altri.
E ha dato una scossa. Il primo a capirlo è stato De Rossi, e ci sono le sue parole a testimoniarlo. Così come l’hanno capito tanti altri allenatori che hanno plaudito alla “durezza” dell’asturiano, a cominciare dal Ct della nazionale, Prandelli che del codice etico ha fatto uno dei criteri sui quali ricostruire la sua nazionale (e infatti ha lasciato fuori Balotelli e Osvaldo).Non l’hanno capito tutti coloro, e a Roma sono tanti, che scambiano l’etica con la cotica (buonissima con i fagioli, terribile se sta al posto della materia grigia).
Una squadra vincente, non solo nel mondo del calcio, ma in ogni altro ambiente, si costruisce solo sulla base di regole condivise, che cementino una solidarietà e una compattezza, che esaltino le virtù di ognuno e ne correggano i difetti, che facciano sentire ciascuno protagonista di qualcosa di importante che si costruisce insieme. Questo risultato non si ottiene senza fatica, impegno, scelte rigorose. Senza mettere il noi davanti all’io. Capisco che tutto ciò – in un mondo del calcio che considerava Moggi un genio e costringeva Baldini all’esilio – possa apparire furia ideologica, addirittura “stalinista”, come scrivono dotti antienriquisti convertiti all’opportunismo della convenienza. Mondo del calcio che, del resto, è lo specchio fedele di un paese che a vent’anni da mani pulite e dalle stragi mafiose tollera ancora evasione fiscale, corruzione, mafia come facenti parte della sua costituzione materiale. In questo calcio e in questo paese, chiunque voglia cambiare deve mettere nel conto l’incomprensione, e sopportare di essere definito un Savonarola, un incendiario, un pazzo.
Il rispetto delle regole per un paese come l’Italia e per un calcio come quello italiano è una vera e propria rivoluzione civile e culturale (non ho alcun timore a pronunciare questa parola) e per questo è osteggiata, i suoi simboli vilipesi, i suoi fautori sottoposti a vecchie e nuove macchine del fango. Quanto sta accadendo a Luis Enrique e anche a Daniele De Rossi segue esattamente questo copione. Frasi tra virgolette attribuite a protagonisti che le smentiscono in modo categorico, retroscena inventati di sana pianta, un crescendo isterico di boatos lanciati come bombe nel clima pre-derby Un allenatore che in Spagna considerano l’erede naturale di Pep Guardiola (l’uomo che ha fatto del Barcellona una delle più grandi squadre di tutti i tempi) viene da noi sottoposto al giudizio di un tribunale di Quaquaraquà, di provinciali un po’ ottusi che dicono: “Eh, sì, magari è bravo, ma deve capire il calcio italiano…”, come se chi sta cercando di ricostruirlo, il calcio italiano (ancora Prandelli) non avesse già indicato nelle idee di Luis Enrique una delle sue fonti di ispirazione.
A tutti costoro è inutile rispondere: sono quelli che per motivi spesso inconfessabili voglio fare saltare fin dall’inizio Luis Enrique e tutto il banco della Nuova Roma. E che caricano adesso perché vogliono sfruttare un’eventuale sconfitta nel derby per l’assalto finale. Invece va tenuto conto dell’amarezza e anche del disorientamento del popolo dei tifosi. A questi sentimenti si può rispondere solo sul campo. Perché si possono scrivere tutti i codici del mondo, ma il modo migliore per fare vivere la propria idea di calcio è mostrarla in pratica, come la Roma ha fatto meravigliosamente in alcuni momenti della stagione. A ogni romanista batte forte il cuore quando si avvicina un derby. Per noi questo è diverso da tutti gli altri. Della classifica in questo momento m’importa poco. Voglio prendermi quel derby perché la rivoluzione diventi sempre più realtà. Voglio che tutta la rabbia del mondo scenda nel cuore dei nostri ragazzi e me li faccia diventare guerrieri, per spazzare via, insieme a quegli orribili colori sbiaditi, quella storia che è tutto l’opposto dell’etica, e quei soloni incipriati che vogliono la testa di Luis. Voglio vedere Luis e Daniele correre abbracciati sotto la curva. Voglio che la Roma si riprenda il suo popolo. Se non ora, quando?