(Lorenzo Serafini) – Roma è una città destinata a vivere spaccata. Divisa dal Tevere, divisa nel tifo, divisa persino quando nevica. Sensiani e antisensiani, , tottiani e non, americanisti e straccionisti, progettisti e destrutturalisti. In questi giorni la nuova spaccatura è tra chi appoggia l’operato di Luis Enrique, le scelte tattico-etico-tecniche e chi invece lo rispedirebbe volentieri in Asturia. O a Barcellona magari, dove qualche giorno fa dicevano di rivolerlo, e il tifo si era già allarmato. Come un bambino a cui viene tolto il giocattolo. Giù le mani da Luis Enrique, se lo vuole il Barcellona, non si tocca. Poi il caso De Rossi, l’ennesima sconfitta in trasferta con annessa goleada subita, psicodramma di squalificati, e brace accesa di nuovo. Forcone in mano, si conduca la triade dirigenziale al rogo, con Luis Enrique primo tra i sacrificati ai cannibali di professione.
IO STO CON LO SPAGNOLO – Io sto con il tecnico spagnolo. Ancora, di nuovo, malgrado. Parlo dell’uomo in questo caso, non del tecnico. La scelta di spedire in tribuna Daniele De Rossi per 1,2,3,4 o più minuti di ritardo non è piaciuta. Dura, durissima punizione. Ma la pena ad una regola infranta, non deve essere misurata sull’importanza del giocatore, ma sulla gravità della colpa. Chiudere un occhio perché è Daniele De Rossi? Annullerebbe il valore di una regola. La punizione ha spaventato tutti: i giocatori, i tifosi, forse i dirigenti. Ha spaventato soprattutto chi sempre abituato alle vicende insabbiate, al “ma così fan tutti”, al “è sempre successo”. Nella città dove si scrive e si dice tutto e il contrario di tutto, dove la credibilità è di chi grida di più, di chi insulta di più, di chi vanta l’amicizia a Trigoria, Luis Enrique è un problema. Perché difficile da capire, inavvicinabile, diverso. Coerente a tal punto da sembrare integralista. Forse da esserlo. Ma fondamentalmente, giusto. Quanto basta per strappare gli applausi di Coverciano e i fischi di Roma.
Da far dire a De Rossi, che Luis Enrique (tre anni nel Barcellona B) è migliore di Fabio Capello (8 scudetti, 4 Supercoppe italiane, una Champions ed una Supercoppa europea), di Luciano Spalletti (3 Coppe nazionali, 1 Supercoppa di Russia, una d’Italia, un campionato russo) e di Claudio Ranieri (2 coppe nazionali, 1 supercoppa, una Charity Shield, una supercoppa europea). Non può essere solo l’abbaglio di tecnici e giocatori. Si può essere d’accordo sul fatto che la Roma non deve diventare un ente morale o una scuola di vita, ma non si dovrebbe discutere sul fatto che le regole siano un problema. Nel paese dei furbetti, degli occhi chiusi, dell’omertà, “degli Scilipoti”, non si dovrebbe far passare Luis Enrique per un pazzo visionario. Non si sta parlando di calcio, di esterni bassi troppo alti, di possesso palla. E’ il tentativo di portare stabilità nella città degli eccessi. Qui dove è stato festeggiato un “Imperatore” Adriano che si è rivelato il più banale dei Caligola.