(G.Manfridi) – La ferita del derby resta, ma l’infezione è stata almeno evitata, e adesso, voltando lo sguardo all’indietro, non ci troviamo più faccia a faccia con quella triste cosa che ci ha morso il cuore per la seconda volta in stagione. A farci da schermo si è frapposto il conforto di una vittoria, il che ci riposiziona nel mondo con ben altro spirito rispetto a qualche giorno fa, e da una vittoria ripartiamo. “Vinciamole tutte!”, abbiamo proclamato in molti, e forse anche in maniera un po’ isterica, all’indomani della sconfitta con la Lazio. Fatto sta che di quelle ‘tutte’ la prima l’abbiamo vinta (…). Oltretutto, l’abbiamo vinta in modo per noi inconsueto, vale a dire senza l’esubero di qualità che ha quasi sempre caratterizzato i nostri successi targati Luis Enrique. Un gol dopo tre minuti, dopodiché un primo tempo gagliardo, una prima metà del secondo con qualche traccia di fatica e un epilogo all’insegna della sofferenza con tutta la squadra schiacciata all’indietro, oltre la linea della palla. Tant’è che Lobont, meritevole di un bell’applauso e il cui più rilevante difetto è una certa fallacità nelle prese, non si è mai travato con l’uomo solo davanti (…), e i suoi interventi, altra cosa rarissima per noi, sono stati di quelli che di solito si richiedono ai portieri; ovvero, balzi tra i pali per opporsi a tiri dalla distanza. Come c’era da aspettarsi, in questa capacità di stringere i denti a dispetto dei molti aggravi che tra infortuni e squalifiche ci hanno costretto all’opportunità coatta di mettere sotto esame i peggiori della classe, buona parte della stampa ha stigmatizzato una fantomatica abiura del tecnico asturiano, che, si legge, avrebbe infine smussato l’integralismo che lo distingue. Non credo. Io ho visto la solita Roma: con prolungate fosforescenze di bel gioco, sempre a rischio di essere un po’ eunuca, ma in buona sostanza nient’affatto lontana da quella con cui stiamo entrando in contraddittoria confidenza dai tempi di Riscone. A dirlo, una volta di più, i dati relativi al possesso palla, che pur quando siamo messi sotto pressione si conferma sempre roba nostra (e non lo sottolineo con vanto, dal momento che proprio in questo riscontro statistico si annida la ragione di tanti rovesci difensivi). Forse, il nodo della querelle che si è accesa attorno alla figura dell’allenatore giallorosso è nella convinzione che il verbo calcistico di Luis Enrique si nutra di un eccessivo personalismo sin quasi narcisistico, quando piuttosto a me sembra che questa interpretazione delle cose sia in gran parte frutto di una letteratura giornalistica ormai ossidata e prigioniera di se stessa (eventuali faziosità da strategia editoriale non voglio neanche considerarle). Indubbiamente, i risultati di quest’anno espongono a critiche tutto l’impianto progettuale portato dalla nuova dirigenza e che si incarna in questo spagnolo cocciuto e inflessibile, ma tutt’altro che protervo. Luis Enrique è né più né meno se stesso, vale a dire ciò che gli si chiede, ciò per cui è stato scelto. Quando lo ascolto parlare, mi faccio sempre più convinto che l’uomo sia di spessore e assai meno astratto di quanto una certa semantica che gli è connessa farebbe supporre. Mi riferisco ad esempio alla parola ‘utopia’, circa la quale io per primo ho indugiato a lungo e che mi sono prefisso di non evocare più. Come sono altresì convinto che, al di là della fanfarona pretesa di inanellare undici vittorie in sequenza, questo ampio finale di stagione verrà affrontato con un pragmatismo capace di sorprendere parecchi. Certo, di qui a maggio il nostro campionato potrebbe trasformarsi in un melanconico limbo, ma una buona porzione di questo rischio è già stata abolita dalla vittoria di Palermo. Non ho fiducia nel terzo posto, ma in un decisivo riscatto sì. Il che significa che confido nella consacrazione di alcuni e nella riabilitazione di altri. Nella schiera dei primi va da sé che spicca su tutti il nome di Fabio Borini. Il ragazzo dalla capigliatura antica, senza creste né tinte, ma con un grande ciuffo e basta. Il suo modo di esultare dovrebbe fare da motto all’intera squadra: quella mano stretta di taglio fra i denti con aria volitiva e piratesca… quanto mi piace! Come mi piace lui anche laddove potrebbe non piacermi; nella sua non perfezione tecnica, ad esempio, che gli consente di non essere mai distratto da se stesso e di trasformare in consistenza pura ogni intervento, ogni gesto, ogni azione che lo coinvolge. E pensare che leggendo del suo arrivo ho preso la cosa alla leggera, come un’aggiunta di corredo neanche troppo necessaria! E non che i giornali abbiano dato alla notizia un rilievo di molto superiore a quella che si usa per ultime rifiniture di mercato. Quando, tantissimi anni orsono, lessi che la Roma aveva acquistato un certo Bruno Conti, ricordo che il tono dell’informazione era lo stesso, come similmente parco fu il mio entusiasmo, e invece…