(S. ROMITA) – Il campionato è finito. Ma non il nostro. La lotta per lo scudetto, salvo colpi di scena assai improbabili, si è conclusa ieri. La nostra lotta invece non è finita con la sconfitta di San Siro. Dobbiamo insistere e non mollare. Il terzo posto? Può essere a questo punto un miraggio da esaltati. Una piccolissima luce bassa all’orizzonte da non far spegnere. Perchè se si molla ora, di posizioni se ne possono nuovamente perdere tante. Il calcio ce lo insegna. La storia dei campionati ce lo dice. Certamente ci vuole uno spirito diverso. Una combattività maggiore in campo. Ieri ci hanno riempiti di botte. Noi siamo stati ballerine. Decine di palloni sbagliati. Avversari rincorsi ma senza convinzione. Nessun tiro da fuori area. Enrique è soddisfatto dei suoi giocatori. Lo capisco. Io non lo sono. Non abbiamo giocato bene. Non pensavo certo che avremmo vinto fuori casa contro il Milan. Ma una volta in vantaggio ho comunque sperato in una partita più facile, in un gioco più fluido, in un tremore in meno nei muscoli. Invece a sinistra non ho visto nessuno e mi è sembrato di giocare con una parte in meno del campo a disposizione. Il pallonetto di Totti mi ha fatto capire che probabilmente era rientrato prematuramente e che non era affatto a posto fisicamente. Ma se non ha tirato una pezza micidiale in quell’occasione è perché non poteva proprio farlo. Ma ieri erano tutti sotto tono.
Il fatto stesso poi che Stekelenburg sia stato il migliore in campo, assieme a Ibra, urla ai sordi che i campioni fanno la differenza. Il “mea culpa” è fatto. Ora si deve dire che il pareggio rossonero è avvenuto su rigore viziato da un fallo precedente su Heinze e che gli arbitri, nonostante il cambio generazionale avvenuto dopo Calciopoli, hanno ripreso a subire la forte sudditanza psicologica. Sul secondo gol di Ibra e su come sia facile scavalcare i nostri giocatori con lanci lunghi non spreco verbo. Mentre mi sembra assolutamente sprecato avere a disposizione uno dei più forti calciatori del mondo (dico di De Rossi) e farlo giocare con la catena al piede. Tenere Daniele fermo, come se fosse il fratello di Tarcisio Burgnich, fa male al cuore. L’emergenza difensiva ci obbliga. Capisco. Ma il nostro cuore non è un giocattolo. Lo so che non sono la persona più adatta per scrivere a caldo dopo una sconfitta, sia pur in parte anche immeritata. E me ne scuso. Mi inginocchio per questo e chiedo aiuto a Tommaso Moro e prego: «Signore dammi la forza di cambiare le cose che posso modificare e la pazienza di accettare quelle che non posso cambiare e la saggezza per distinguere la differenza tra le une e le altre». Ma insieme a me si inginocchino un pochino anche Enrique, Baldini, Sabatini e gli americani. C’è da comperare roba seria. E c’è da vendere.