Game over. Finisce con una montagna di rimpianti e tanta amarezza la prima stagione “americana” della nuova Roma. Fuori dall’Europa League per mano di semisconosciuti slovacchi, asfaltati in coppa Italia dalla Juventus senza combattere, domenica è arrivato l’epilogo più doloroso: l’addio alle residue ambizioni di raggiungere il terzo posto. In città c’è un’aria strana, quasi perversa. La pazienza degli ultimi tempi ha lasciato spazio ad una forte dose di nervosismo. Un energico fastidio che sta contagiando quasi tutti gli strati della passione giallorossa. Le speranze verso un futuro fatto di successi, coppe, campionati e dominio interplanetario sono svanite come una bolla di sapone e, come al solito, è cominciata la caccia alle streghe. Se la Roma si è ritrovata in questa situazione kafkiana, le responsabilità sono di tutti. Ognuno con la propria percentuale di colpa. Ognuno senza l’obbligo di sentirsi offeso per questo. Non necessariamente gli errori nascono da una radice di malafede perché vige sempre la regola che “sbaglia chi lavora”. Detto ciò, diventerebbe stucchevole proseguire nel ricercare alibi o generose spiegazioni per questo tracollo sportivo. I numeri, purtroppo, non lasciano spazio a molte interpretazioni. Dodici sconfitte annuali sono un’enormità. Battute d’arresto spesso accompagnate da un atteggiamento debole e confusionario, che non possono essere giustificate dall’inesperienza. Borini, ad esempio, mette a nudo l’illogicità del precedente postulato: a 20 anni combatte come un dannato. Come se fosse sempre in equilibrio sul ciglio del burrone, alla quotidiana ricerca della propria salvezza. Le difficoltà della Roma, probabilmente, hanno una natura ben differente da quanto ipotizzato fino ad oggi e, forse, si dovrebbero ricercare nella gestione mentale del gruppo. Capitolo a parte per Luis Enrique. Il vate delle Asturie, specie nelle recenti settimane, è parso inquieto e poco lucido. Ingabbiato fra ciò che serve alla squadra (i risultati) e quello a cui aspira nella sua idea di gioco. Un’intransigenza aurea e figlia della ridotta abitudine a vivere il comando di una portaerei come può essere quella romanista. Entrare nello specifico tattico servirebbe a ben poco e non sarebbe neppure rispettoso per un uomo, fondamentalmente, da stimare. Tuttavia, ci vuole pure un segnale forte da consegnare ai tifosi perché il rischio di scadere nell’oblio della mediocrità aumenta sensibilmente col passare dei giorni. Adesso che mancano dodici giornate dal suono della campanella, ci sarà da aspettarsi una squadra (salvo i soliti noti) che, senza più l’assillo della classifica e degli obiettivi, riuscirà a sbocciare definitivamente? Il pericolo è forte. Fortissimo. Ma le responsabilità, prima o poi, tutti se le dovranno prendere. Chi più, chi meno. Roma è questa. Roma è soprattutto questa.
A cura di Piergiorgio Bruni