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REPUBBLICA.IT Il razzismo, il caso Juan e l’indifferenza del calcio: bisogna chiudere le curve

(F. Bocca)- Il razzismo da stadio è un male sordido, infido, maledetto se non lo affronti in maniera massiccia, drastica e a qualsiasi livello. Reprimendo duramente dunque qualsiasi atto di intolleranza e convincendo, se non addirittura obbligando, la gente a cambiare atteggiamento. Il “caso Juan” non è molto diverso da altri, dagli infiniti casi Balotelli o Zoro cui purtroppo abbiamo assistito in questi anni, ma una particolarità ce l’ha. Il buu razzista, scatenato da un banalissimo contrasto di gioco – e già questo ci fa capire come la predisposizione all’insulto sia altissima, praticamente automatica – nasce forse da pochi tifosi, e poi si diffonde nella curva come una vera onda sismica, quasi una ola. Non so quantificare chi partecipasse a emettere quegli stupidi buu scimmieschi, so solo che erano tanti, tantissimi, allo stadio sentivo buona parte della curva ululare. E mi figuro lo spettatore che partecipava allegramente al vergognoso coro: sicuramente molti non sono razzisti nell’animo e però trovano normale dare della scimmia a un loro simile solo perché non ha la pelle del loro colore, bollandolo così di essere inferiore. E diffondendo così a dismisura il razzismo stesso. Ciò che a casa tua o in strada o in luogo pubblico non faresti mai perché è palesemente un atto ignobile, allo stadio lo fai solo perché pensi che in una partita di calcio tutto sia ammesso. E soprattutto perché ti nascondi vigliaccamente nella moltitudine. Inaccettabile.

La sottovalutazione è proprio questa, il non accorgersi che basta una scintilla per innescare il fenomeno. Ricordo che all’ignobile coro della Curva Nord  (Lazio), la Curva Sud (Roma) dello stadio Olimpico ha risposto prima esplodendo una decina di pericolosissime bombe carta – altro fenomeno che nessuno si è preoccupato di debellare – e poi per tutta risposta alla prima occasione ha fatto gli stessi buu nei confronti di Diakité. Magari non con la stessa intensità, ma ci sono stati. E quindi al problema dell’ampio numero di partecipanti all’esibizione razzista dobbiamo aggiungere quello della reazione a catena.

Le considerazione che possiamo fare in fin dei conti sono le stesse che abbiamo fatto in altri casi simili, ma la cosa che più mi fa arrabbiare e veramente intollerabile è la sostanziale indifferenza nei confronti del fenomeno da parte del calcio stesso. Ci si limita a qualche condanna dopo, ma mai a fare qualcosa sul momento. Juan che si era rivolto stizzosamente alla curva col dito al naso per dire “zitti”, ha avuto un paio di abbracci e altrettante parole di solidarietà, un giocatore della Lazio (Matuzalem) si è rivolto alla curva per dire che così non si fa, ma l’arbitro era troppo preoccupato dagli affari suoi  – un qualsiasi arbitro non considera mai il razzismo un problema suo, ma di altri – e quindi ha fatto proseguire la gara come se niente fosse. I calciatori non si sono minimamente preoccupati di chiedere di fermare la partita – sarebbe bastato un minuto tutti fermi stretti intorno a Juan – perché il loro unico compito è quello di giocare e possibilmente bisticciare con l’avversario di un derby; agli allenatori non interessava assolutamente nulla in quanto l’unico fine di una partita per loro è il risultato che gli salvi la panchina. L’ho chiesto direttamente a Luis Enrique, dopo, ma lui aveva altro da pensare, ha detto che in casi del genere non sapeva cosa fare e che “se ci fermassimo non si completerebbe mai una partita”. E vai così, un’alzata di spalle e avanti.

Io credo che a livello di sanzioni sportive le multe non bastino e non servano assolutamente a nulla e che sia necessario tornare rapidamente alla chiusura di quelle curve – quella laziale in questo caso – che tanto ci tengono a essere protagoniste con il loro folclore. Ma il razzismo (o l’esplosione di pericolosi ordigni, non dimentichiamolo…) non è folclore è solo una vergogna che lo sport – massima espressione, ripeto sempre, di integrazione fra tutti gli uomini e le donne di qualsiasi religione e colore – non si merita proprio.

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