“Rialzarsi subito e preparare al meglio le dodici gare che restano”. La faccia di Luis Enrique nella pancia dell’Olimpico è sconfitta e desolata, quasi come quella del tifoso giallorosso. Ha un obbligo, un contratto da onorare ed è per quello che oggi alle 14 è stato a Trigoria per dirigere la seduta. Il tifoso non ha contratti nè obblighi, è parte integrante di una scelta di vita, di un modo d’intendere il calcio solamente a tinte giallorosse, vedendo tutto il resto lontano e sbiadito. Ma da lui si deve ripartire: umiliato con lo Slovan Bratislava, annichilito da sogni di gloria nella fredda serata di Torino, buttato fuori in malo modo da un finale di stagione che potesse regalare ancora un obiettivo. Nonostante ciò, lui c’è stato, lui ha applaudito con il Cagliari, ha mandato giù bocconi amari in trasferta, ha riempito la Curva ad entrambe le stracittadine, ma nullà è servito. L’hombre vertical sta ormai passando dalla coerenza all’integralismo religioso, quello nei confronti del suo modo di giocare, un’idea in atto che poi in potenza non si afferma, ma si rafferma. La Roma esce dal derby con le ossa rotte, l’animo in subbuglio e la mente stanca. Il campionato al momento sembra finito ma guai a fermare il cammino: seppur in salita, restano dodici gare utili al progetto, parola forse troppo abusata, per capire realmente chi può essere ancora tassello di questo palazzo in costruzione. Delittuoso ora sarebbe buttare via un lavoro quotidiano di circa 7 mesi, dove una parvenza di struttura è stata data. Arduo, quello si, fare degli aggiustamenti, ricaricare le pile, salvare la faccia e l’onore di gente che “pe sta maglia se ne more”.
A cura di Andrea di Carlo