(G. Picardi) È morto a 64 anni di tumore, di doping e dell’insostenibile pesantezza dell’essere Carlo Petrini nel reparto di oncologia dell’ospedale di Lucca, a poche curve dalla sua Monticiano (Siena), da dove tutto partì— la carriera da calciatore, da allenatore e poi da fustigatore di (mal)costumi propri e altrui —, evaporando per strada come il fumo della sigaretta che stringeva sempre tra le labbra.«Ho conosciuto il doping e le partite truccate appena sono diventato un professionista»raccontava con la voce asfaltata di catrame e gli occhi svuotati dal glaucoma a chi aveva voglia di salire alle pendici di quel male di vivere di cui aveva fatto un mestiere dopo il calcio, le giovanili nel Genoa, una stagione al Milan di Rocco (’68-’69: anno della coppacampioni in cui giocò un match), una Coppa Italia con il Torino (’69-’71), gli ultimi gol nella Roma di Liedholm (’75-’76) prima di eclissarsi in provincia e dentro il calcioscommesse, l’inchiesta- madre degli anni 80 che gli costò tre anni e 6 mesi di squalifica.
La storia dimostrerà che Petrini gestiva meglio il pallone degli affari e degli affetti: fallirà la finanziaria che avrebbe dovuto garantirgli la pensione, si sbricioleranno le famiglie costruite per fame d’amore, fino alla prova più alta cui un padre che ha abbandonato l’Italia per sfuggire a debiti e usurai possa essere sottoposto. Nel ’95 il figlio Diego, 19 anni, morente di un tumore al cervello, lancia un appello attraverso i giornali, vuole rivederlo dopo sei anni di anonimato in Francia. Petrini non torna («Ho troppi conti in sospeso in Italia: se rientro mi ammazzano…»), e il senso di colpa comincia a esplodergli dentro insieme alle rime delle poesie che dedicherà a Diego, primo di una serie di libri di denuncia, («Nel fango del dio pallone» raccontò la pratica dilagante del doping con la complicità del sistema- calcio), d’inchiesta («Il calciatore suicidato» ha contribuito a riaprire le indagini sulla misteriosa scomparsa del giocatore del Cosenza Donato Bergamini) e d’appendice («Lucianone da Monticiano» è uscito quest’anno), tutti editi da Kaos, lui sempre credibile ma mai troppo creduto, rappresentato più a teatro e al cinema che nei luoghi di discussione pubblica di questo sport avvelenato, che in Carlo Petrini si guardava con disagio come dentro lo specchio della strega: chi è il più malato del reame? Loquace quanto Zeman è ermetico (sull’argomento doping), bulimico di critiche e giudizi, attraverso il chiaroscuro di un’esistenza nella quale non si è fatto mancare nulla, di Petrini rimane lo sguardo dritto nella telecamera. Mentre sullo sfondo un pallone, per sfuggire a quell’anima critica, continua a rotolare.