Depredati. Illusi. Sconfitti. Depredati da un tecnico capace di segnare, cadenzare e riscrivere tutti i record negativi della Roma degli ultimi vent’anni (e ci siamo tenuti stretti). Una stagione iniziata male e condotta peggio con errori ripetuti e perpetuati nel tempo tanto da far venire anche al tifoso, cronista e fedele più incallito l’istinto di cambiare canale per evitare scempi ed umiliazioni. Sconfitta con lo Slovan nel match di andata di Europa League (pareggio nel ritorno), doppia sconfitta nei derby come non accadeva da tempo immemore (basti pensare che l’ultimo successo biancoceleste prima dell’avvento dello spagnolo risaliva all’11 aprile 2009), e per giunta con una squadra decisamente inferiore da quelle affrontate da predecessori illustri o meno, come Mazzone, Zeman, Capello, Spalletti e Montella. Batoste esterne clamorose subite in sequenza contro Fiorentina (3-0), Cagliari (4-2), Atalanta (4-1), Juventus (3-0 Coppa Italia), Lecce (4-2) e di nuovo Juventus (4-0). IL tutto buttando alle ortiche cuore, anima e polmoni in primis ai giocatori. Perché inequivocabile resta il fatto che dopo ben 9 mesi di calcio e di guida tecnica al sapore di Paella, la Roma non ha ancora ne una identità, ne tanto meno un carattere. E per questi e altri mille motivi, messi in mostra in stagione (preparazione fisica praticamente nulla, sistema di gioco incomprensibile, giocatori fuori posizione etc etc), non si può definire ancora come una squadra, ma piuttosto come un caos calmo. Perché se da un lato la dirigenza resta pedissequamente certa della sua rivoluzione culturale e legata al suo proyecto tecnico, raffigurato proprio nella persona di Luis Enrique, dall’altro, si nota ormai con troppa semplicità l’immaturità di una allenatore non pronto ad affrontare una piazza importante come Roma e forse, addirittura non pronto per una carriera da allenatore. Senza contare la saturazione emotiva da parte di tutti coloro che amano e seguono la Roma. Sono riusciti anche a togliere l’idea di imprevedibilità insita in una partita di calcio. Illusi da una dirigenza accolta a braccia aperte al grido di “Viva gli americani”, “ Viva la libertà”, “La guerra è finita”. Dimenticandoci che la liberazione di Roma è datata 4 giugno 1944 e che le lezioni di storia, letteratura e cultura generale fanno più parte di una aula universitaria o comunque di una scuola, piuttosto che di un campo di calcio. E di certo se in passato ne abbiamo prese (di lezioni) e in futuro ne prenderemo data la forte curiosità che ci attanaglia, non andremo di certo ad inseguire il nostro mentore nelle figure di Walter Sabatini, Franco Baldini, Mauro Baldissoni o Claudio Fenucci. Parlare chiaro e parlare facile deve essere il motto, essere pragmatici la prospettiva da seguire per ridare dignità ad una squadra allo sbando. Sconfitti senza replica e senza neppur essere scesi in campo. Zero tiri in porta in 90’ di gioco, possesso palla tanto osannato nettamente appannaggio della Juventus e gap addirittura aumentato proprio dai bianconeri. La Roma è passata infatti dal 3-0 di Coppa Italia al 4-0 in campionato, sempre contro la Vecchia Signora, mettendo in evidenza tutti i limiti e le fragilità stagionali di una squadra incapace di offendere, difendere e riuscire a esprimere un modello di calcio che a questo punto resta una utopia del tutto fuori luogo. Così come sembra il tecnico asturiano sulla panchina giallorossa. Edoardo Galeano ha scritto “L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare.” E questo sta facendo l’infante Luis Enrique, tentare di camminare a spese di Roma e della Roma. Ora basta Luis!
Paolo Piccinini