(MINO FUCCILLO) – A Luis Enrique la “Jena” de La Stampa, di solito corsivista politico, dedica le sue sei parole di giornata: “Finalmente un tecnico che si dimette”. Non crediamo sia stato solo il gusto della battuta felice a spingere “Jena” a mettere Luis Enrique in terza e politica pagina del La Stampa, crediamo che “Jena” abbia intuito ed espresso il carattere di parabola italiana della vicenda dell’ormai ex allenatore della Roma. Una storia che non è solo della Roma ma è anche storia di Roma, dell’Italia, del paese e appunto dei suoi “tecnici”, tutt’altro che soltanto quelli del calcio.
Luis Enrique si fa da parte lasciando sul piatto circa un milione e mezzo di euro di stipendio garantito, aveva un contratto per il secondo anno. Comportamento bizzarro nel calcio, comportamento ignoto nella società, ancora una volta non quella di calcio.
Luis Enrique lascia perché non ce la faceva più, non reggeva più. Ma non accusa, non recrimina, non resiste. Cioè non obbedisce ai tre comandamenti massimamente rispettati nella vita pubblica italiana. Addirittura ragiona e dice di lasciare perché altrimenti a rimetterci sarebbe la società che lo ha ingaggiato. Mostra dunque un comportamento aziendale che in Italia era pratica comune della generazione dei nonni, poi basta.
Fino a che c’è stato Luis Enrique non se la prendeva con gli arbitri o con i “complotti”. Praticamente una bestemmia nel nostro calcio dove Conte, l’allenatore della squadra che ha vinto lo scudetto, per tutto l’anno ha giurato che c’era, evidente, una trama contro la Juventus. Una bestemmia blasfema, ancor più blasfema nella società civile dove tutti siamo convinti e giuriamo che è sempre e solo colpa di qualcun altro. Non se la prendeva con gli arbitri, non denunciava complotti e, sommo scandalo, talvolta diceva davanti alle telecamere la verità, tipo: “Abbiamo vinto ma siamo stati fortunati, soprattutto fortunati”. Ma come “fortunati” in un paese dove ogni “squadra” proclama la sua superiorità etica, genetica, territoriale, economica e d’ogni tipo su ogni altra squadra e, ripetiamo, parliamo mica solo di calcio, anzi.
Orrore degli orrori, Luis Enrique da come parlava era sospettabile di aver letto qualche libro e di avere un’etica comportamentale a prescindere e comunque superiore alla convenienza del momento. Tutto questo l’ambiente allogeno l’ha fiutato ed annusato al volo, subito ha pensato fosse uno straniero “barbaro” perché non parlava la stessa lingua. La lingua di quelli che chiacchierano a tassametro dalle radio romane, la lingua di quelli, i “patrizi” che da una vita vanno in Tribuna gratis, la lingua di quelli, i “plebei” che vanno agli allenamenti della squadra ad intimare che comandano loro. La lingua delle “famiglie” avvinte come piante carnivore alla squadra, la lingua dei giornalisti che, se non si sparano urla, congiure, pastette, di che campano?
Quindi Luis Enrique, il “tecnico” Luis Enrique “finalmente” se ne va e il “mondo dei Marione” fa festa e celebra vittoria. Questa storia deve aver fatto venire in mente, per immediata associazione, a “Jena” la reazione di rigetto sempre più evidente e marcata della “squadra Italia” rispetto ad altro “tecnico” e “barbaro”. La stessa associazione che è venuta in mente a noi: il campionato 2012/2013 dell’Italia finirà con un addio e una festa come quello di Luis Enrique e come quella dei Marione?