(L. VALDISERRI) – Quella di stasera, ore 20,45, contro il Catania e il grande exVincenzo Montella, potrebbe essere l’ultima partita all’Olimpico di Luis Enrique sulla panchina della Roma. Anche se l’allenatore asturiano ha confermato che incontrerà i vertici della società a campionato finito, dopo l’ultima partita a Cesena, domenica 13 maggio, sono sempre di più i segnali del suo addio. Ieri, per esempio, Luis Enrique ha parlato per la prima volta di problemi per la sua famiglia, un tema annunciato dal d.s Walter Sabatininel dopo partita contro il Chievo.
E, a questo punto, non sembrano proprio parole dette per caso: «Ancora non so se andrò via. Il motivo dei miei dubbi? Perché si tratta di un cammino non facile, che ha avuto effetti sulla mia persona e sulla mia famiglia, cose per me importanti». Non è stata un’avventura facile per il tecnico: «Di sicuro non mi aspettavo una stagione più difficile di così, ma non è questa la conferenza adatta per parlare del mio futuro. Non interessa neanche a me, il mio futuro. Mi interessa solo quello della Roma. Siamo ancora in lotta per l’Europa League, questo conta». Ma qualcosa sembra essersi rotto con una fetta consistente dei tifosi: «È fondamentale il rapporto tra tifosi e squadra, altrimenti non si va avanti. La gente crede ancora in me? Chiederò a mia moglie di portare uno striscione di 150 metri con scritto “Luis, sei un grande” e dall’altra parte una signora a cui non piaccio ne può portare un altro con scritto “Luis, sei una merda”. Valutare semi insultano in pochi o in tanti è difficile. Normalmente si sente di più chi urla e fischia».
Tifosi che sono la forza della Roma—Luis Enrique lo ha sempre detto — ma che non lo faranno deviare dalla sua idea di calcio: «Quando sono arrivato, la prima cosa che mi hanno chiesto i tifosi è stata: “falli correre e fuori le palle!”. Ma quando non ho fatto giocare Totti o De Rossi, si è montato un casino. Ma chi vede gli allenamenti? Chi sa come si comportano i ragazzi? Chi deve scegliere la formazione? Io. Sono io quello che deve prendere le decisioni». Comprese le punizioni a Osvaldo (schiaffo a Lamela) e De Rossi (ritardo a una riunione tecnica): «E lo rifarei perché solo costruendo un gruppo puoi vincere. Ho messo il gruppo davanti ai miei stessi interessi. Da allenatore era meglio far giocare De Rossi, a Bergamo, ma nessuno può essere più importante della squadra. Nemmeno Messi. Un calciatore ti fa vincere una partita, una squadra ti fa vincere i titoli. Forse è strano, ma è il mio pensiero». Un pensiero che si è scontrato con il monolite che si chiama calcio italiano e all’italiana.