(C. Zucchelli) – Entusiasmo e gioco. Un anno fa Luis Enrique di questi tempi era ancora a Barcellona. I contatti con la Roma erano in fase avanzata, lui aveva già deciso di accettare l’offerta di Franco Baldini ma era ancora alle prese con la squadra B dei catalani impegnata nella seconda divisione spagnola. Pensava a Soriano e compagni di giorno, ma la sera nella sua mente c’era spazio solo per la nuova avventura che stava per intraprendere. I risultati non erano – e non sono mai stati – un assillo. Luis Enrique veniva qui per dare a un club che si stava ricostruendo un’identità precisa, un’idea di gioco e di comportamento che potesse dare entusiasmo a tutti i tifosi.
A Riscone le premesse sembravano ottime. Sembravano, appunto. Perché già da Roma-Slovan le cose sono cambiate. I fischi al momento del cambio di Totti con Okaka, l’eliminazione dall’Europa League e la prima crepa con l’ambiente. Piccola, piccolissima. Perché i tifosi erano comunque dalla sua parte. Lo sono stati sempre, almeno fino a un mese fa. Il ko di Torino e la sconfitta in casa con la Fiorentina hanno creato una frattura forte. Ma è ingeneroso, oltre che scorretto, dire che Luis Enrique andrà via perché la gente non è più dalla sua parte. Luis Enrique lascia perché, essendo il primo critico di se stesso, oltre che il più esigente, pensa di aver fallito in quello che era il suo obiettivo principale. I risultati, cioè il mancato piazzamento europeo, hanno un ruolo marginale. Quello che lo spagnolo non riesce a perdonarsi e che non lo fa andare avanti è la convinzione di non aver creato niente. In un anno trascorso a Trigoria non c’è nulla di quella che lui pensava fosse la sua impronta: la squadra ha mostrato solamente a tratti il gioco e il famoso possesso palla è risultato spesso sterile e inutile. Non solo: il codice etico voluto da Luis e avallato la società ha mostrato più di qualche falla, i giocatori a parole dicono di sperare una sua conferma ma nei fatti spesso e volentieri hanno fatto poco o nulla per lui. E non per scelta. Questo sia chiaro: i calciatori non hanno mai giocato contro Luis Enrique. Anzi, hanno cercato in tutti i modi di aiutarlo ma hanno mostrato, anche inconsciamente, una sorta di rigetto per le idee dello spagnolo. Il quale, fanno sapere da Barcellona, sembra orientato a tornare in patria e a prendersi un anno di riposo. Stressato, molto provato, è pronto a staccare la spina e ad isolarsi almeno per qualche mese. Nel suo quartiere, fuori Barcellona e vicino al mare, dicono che stia per tornare e che la villa dove viveva con la famiglia è pronta ad essere riaperta e che già nei prossimi giorni si torneranno a vedere Luis e la moglie, Elena, alle prese con la loro quotidianità catalana. Una quotidianità che a Roma non hanno mai trovato. E in questo caso anche la scelta di un esilio volontario all’Olgiata, consigliata da De La Pena, ha sicuramente influito. L’ex giocatore della Lazio ha lasciato Trigoria dopo poche settimane di lavoro, il tattico Lopez ha fatto lo stesso dopo aver resistito quattro mesi. Accanto a Luis sono rimasti Llorente – il mental coach, l’uomo che lo ha seguito come un’ombra in tutti questi mesi – il vice Moreno e il tattico Cabanellas. Persone che al Bernardini godono della stima, umana e professionale, di tutti. Hanno dato l’anima in questi mesi ma i risultati non hanno soddisfatto le attese. Anche loro hanno disdetto l’affitto delle rispettive abitazioni, anche a loro pesa lasciare a metà questa avventura. Ma sono legati in tutto e per tutto a Luis Enrique. I suoi tormenti sono anche i loro. La sua delusione è anche la loro. E servirà parecchio tempo prima che possa essere smaltita