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IL ROMANISTA SS Lazio, un ente immorale

Lotito

(L.Pelosi) – Non è giusto dire che la storia della Lazio è una storia di scandali e partite truccate. Ce n’è una, ad esempio, che sicuramente i giocatori biancocelesti non si sono venduti. Si giocò il 7 novembre 1973, in Coppa Uefa, contro l’Ipswich Town. Un gol annullato a Garlaschelli fece infuriare giocatori e pubblico, seguì lancio di oggetti in campo e inevitabile squalifica da parte della Uefa. E così la Lazio divenne l’unica squadra italiana ad aver vinto lo scudetto senza aver potuto partecipare alla Coppa dei Campioni. D’altronde, come si diceva in Sud, certe emozioni c’è chi le vive e c’è chi le sogna. Ai brutti sogni devono aver fatto l’abitudine in casa biancoceleste, nonostante Mauri dopo l’interrogatorio si dicesse «tranquillo». E nonostante poco tempo fa il presidente Lotito parlasse di «tintinnio di manette», in uno dei rari momenti in cui non era impegnato a denigrare la proprietà della Roma. Le manette peraltro lo stesso Lotito le aveva già sentite tintinnare il 14 novembre 1992. Una settimana prima la Lazio aveva perso 2-1 in casa contro il Torino, ma sicuramente lui era ancora più triste per la sconfitta della squadra di cui era tifoso, la Roma, finita ko 2-1 a Firenze. Una vicenda di appalti miliardari lo portò dietro le sbarre, come peraltro capitò anche al suo predecessore, Sergio Cragnotti, rinchiuso nel carcere di Opera. Ci arrivò direttamente dal Brasile. Si trovava lì per acquistare giocatori, dicevano i tifosi della Lazio. Perché temeva il peggio, sostenevano magistrati e avvocati. Cragnotti patteggiò poi la pena, qualche anno dopo le manette tintinnarono nuovamente per il crac Cirio. C’è chi truffa gli azionisti Parmalat e chi, forse, quelli della Lazio, magari con un bel patto parasociale con il genero Roberto Mezzaroma per evitare l’Opa. La Covisoc indaga, ma qui siamo già tornati a Lotito. Tra Lotito e Cragnotti, peraltro, c’era stato Ugo Longo. In precedenza era stato capo della procura antidoping Figc e nell’agosto del 1998 aveva dichiarato, trionfante: «Il doping nel calcio non esiste». Per conferma, chiedere a Stam e Fernando Couto, entrambi squalificati per doping quando vestivano la maglia della Lazio. Se i presidenti sbagliano, i giocatori non danno certo il buon esempio. Grazie agli eroi della Nord, la Lazio è stata coinvolta praticamente in tutti gli scandali del calcio italiano. La prima volta, nel 1980, le manette tintinnano sulla porta degli spogliatoi dello stadio Adriatico. I carabinieri aspettano che Pescara-Lazio finisca, poi arrestano Cacciatori, Giordano, Manfredonia e Wilson per essersi venduti la sconfitta della loro squadra contro il Milan (ed averci pure scommesso sopra). Lunghe squalifiche, condonate per la vittoria del Mondiale nel 1982, con Bruno Conti sul tetto del mondo e la Lazio in B. Assoluzione in sede penale, ma solo perché il reato di frode sportiva fu introdotto nel 1989. Quindi niente processo, nel 1986, per Claudio Vinazzani, un altro che si è venduto la Lazio, condannata pure a 9 punti di penalizzazione da scontare nella loro sede naturale: sempre quella, il campionato di serie B. Ancora oggi, quando parlando dell’anno “del meno nove”, si commuovono e si abbracciano. Forse perché, per una volta, il tintinnio fu solo quello dei soldi del totonero. L’ultimo grande scandalo del calcio italiano è stata Calciopoli e, guarda un po’, ancora una volta era coinvolta la Lazio, salvata dalla retrocessione a causa di una sentenza di primo grado scritta male. Ma le telefonate c’erano e costarono comunque una penalizzazione. E continuarono, provando ad «ammorbidire» il Lecce. O rispondendo a Cesare Previti, che si lamentava del fatto che il figlio fosse tenuto in panchina dall’allora tecnico degli Allievi Franco Nanni. «Ma me l’hanno imposto in nome della lazialità, sai, tutte ’ste cazzate» rispose il presidente, che della lazialità se ne frega da sempre. Come quando sorrideva felice al gol di Totti al derby nel 1999, lo trovate facilmente su youtube. «Ci abbracciavamo ai gol della Roma» ha ricordato Francesco Storace, colui che favorì la sua ascesa al club biancoceleste quando era governatore della regione che dà il nome alla squadra (ma perché, poi? A Milano c’è forse una squadra che si chiama Lombardia?). Un’ascesa non semplice, c’era da far fronte a più di 100 milioni di debito con l’erario. Caricare i debiti sugli altri, in effetti, è un marchio di fabbrica. Ci provò anche il generale Vaccaro nel 1927, ponendola come condizione per entrare nell’As Roma. (…)

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