(F. Roncone) – Daniele De Rossi si comporta, e viene ormai percepito, come un leader. Nei delicati equilibri della nazionale questa è una notizia: naturalmente appartiene alla categoria di notizie che un commissario tecnico non accetterà mai di confermare; però gli indizi per sostenerla, come leggerete, ci sono tutti. Per dire: venerdì, vigilia cupa e nervosa della partita d’esordio contro la Spagna, è lui, De Rossi, che spediscono sul palco della sala principale delle interviste, a Casa Azzurri. Lui arriva senza allargare sorrisi. Saluta con fredda cortesia i cronisti amici, firma un autografo ad una giovane hostess, va su e si siede.
Osserva la platea. Ha lo sguardo fermo. Neppure un filo d’ansia. Prende il microfono: «Sono qui, cominciate pure». Quaranta minuti di domande. Alcune anche insidiose. Sull’inchiesta calcioscommesse, su Buffon, sul generale clima di sfiducia. De Rossi risponde piano, è deciso, netto. Difende la categoria, ma ammette che se i magistrati inviano avvisi di garanzia,«avranno le loro buone ragioni ». Poi parla di schemi, li spiega senza indugi. Sfoggia un eloquio forbito, sistema un giornalista: «Mi scusi, non ho capito qual è la sua domanda: può ripetermela? ». Quaranta minuti così. Saluta, se ne va. Altre immagini. Due giorni dopo. Stadio di Danzica, area di rigore italiana: c’è lui che gesticola, chiama i compagni, urla ordini, comanda. Salite, chiudete, attento lì, dalla a me, tienila bassa. Nei piani di Cesare Prandelli, tatticamente, avrebbe dovuto anche comandare di più.
A De Rossi aveva infatti chiesto di assumere una posizione identica a quella che gli era stata assegnata, nella Roma, da Luis Enrique: i terzini larghi, e tu qualche metro avanti ai due difensori centrali nella fase offensiva, per impostare; nella fase difensiva, gli devi invece scalare in mezzo. Non è andata esattamente così, De Rossi — a tratti — ha giocato quasi come un vecchio libero: ne staranno parlando, vedremo con la Croazia. Ciò che però conta è l’atteggiamento del giocatore. Un leader, un nuovo capo dello spogliatoio. Quando ci rientrò, al 27’ di Italia-Stati Uniti, in Germania, ai Mondiali del 2006, aveva 22 anni e un minuto prima aveva mollato una gomitata micidiale a Brian McBride: 4 giornate di squalifica, per poi però tornare ed essere tra quelli che andarono sul dischetto, la sera della finale con la Francia. Aveva la faccia di un ragazzo. Una vita fa. Anche difficile. Con dentro la separazione dalla moglie Tamara, con il padre di Tamara trovato ucciso con una fucilata, con l’amore per la figlia Gaia (bellissima) da vivere con la fatica prevista dalla legge.
C’era la scena perfetta per perdersi. Non è successo. È fidanzato con l’attrice Sarah Felberbaum, è l’erede designato alla fascia da capitano di Francesco Totti, ha rinnovato il contratto con la Roma: 5,5 milioni netti all’anno, più uno di premi. Tanti soldi, ma avrebbe potuto guadagnarne parecchi di più nei club che l’hanno cercato (Manchester City, Real Madrid). Non è andato perché adora la città (con la Felberbaum convive dietro Campo de’ Fiori) e poi perché il sabato pomeriggio, a Trigoria, deve assistere alle partite della Roma Primavera, allenata dal padre Alberto (lo scorso inverno, il padre dovette alzarsi dalla panchina per andare a calmare il figlio che, sul 4-1 contro il Milan, urlava aggrappato alla recinzione. «Danie’, stiamo vincendo… Calmati, che figura mi fai fare?»). L’altro giorno, in allenamento, alla fine di un esercizio, c’è stato uno di quei momenti in cui scattano le battute: Cassano ha detto una cosa a Thiago Motta, che ha dato una spinta a Di Natale, e tutti ridevano, e Prandelli stava perdendo la pazienza. Allora s’è sentita la voce di De Rossi: «Oh, dai, ragazzi… Ascoltiamo il mister…».