(M. Basile) – Finisce così, con Daniele De Rossi che sbuca dalla zona mista dello stadio Nazionale di Varsavia. Mani in tasca, saluta un amico, oltre la transenna, e gli sussurra: «Penso di farcela».Le due ore di De Rossi allo stadio, dal momento in cui entra nella sala conferenze con il ct Prandelli, alla veloce uscita di scena dopo la rifinitura, racconta l’ultima sfida di uno che andrebbe chiamato Capitan Presente, non Capitano Futuro. Perché a quasi 29 anni, il centrocampista azzurro non vuole perdersi una sola goccia della vita. I progetti a lunga scadenza non vanno oltre le 20,45 di stasera. «Queste partite nessuno vuole perderle. Non si tratta di essere eroi, io voglio giocarle tutte, anche Roma-Triestina». Il dolore alla schiena che lo ha costretto a lasciare il campo contro gli inglesi, non è passato. La sua corsa durante la rifinitura è parsa non completamente armonica, ma De Rossi ha voluto dare subito un segno a Prandelli e ai compagni: lui c’è. Ha guidato il gruppo nella corsa. Negli scatti ripetuti. L’azzurro è sempre stato in prima fila assieme a Chiellini, Pirlo e Bonucci. Ha corso da titolare, da leader, da uno che vuole esserci, anche se il prato, sconnesso, scivoloso, come Oliver Bierhoff ha confessato al romanista nel tunnel che portava al campo, moltiplicherà gli spasmi alla schiena. Ma, appunto, «non è questione di essere eroi» . Però uomini, sì. Dopo quello di Chiellini, Capitan Presente è il recupero più clamoroso: in questi tre giorni Prandelli ha temuto seriamente di perderlo, e fino a ieri pomeriggio era ancora preoccupato. L’azzurro farà altre terapie, ma è a posto, più per ostinazione che per una completa guarigione.Non c’è domani. Germania-Italia è il presente. «Probabilmente – dice – anzi, di sicuro è la partita più importante della mia stagione e comunque lo sarà anche della prossima, visto che mi si prospetta la possibilità di non giocare le coppe». Il calcio è struttura e stile, e ha bisgno di grandi interpreti. Guardare De Rossi in campo mentre stira la schiena come fosse tutto normale, e vederlo nella sala conferenze affrontare le domande, è un tutt’uno: è un prim attore. Tiene a bada i giornalisti, afferra il senso di una domanda in inglese e la traduce a Prandelli, si gratta la testa in modo teatrale davanti alla domanda profana (Daniele, se giocasse Klose sentiresti un po’ il derby?«No, sarà una partita molto più importante» , risponde, ma il senso vero sarebbe: giornalista, ma ti rendi conto di cosa ci giochiamo qui?). Promuove Prandelli: «E’ bello giocare in questa squadra, è organizzata, come mi è capitato con la Roma». De Rossi fa parte di quei quattro giocatori che rappresentano la guida morale di questo gruppo che lascia lo stadio compatto, al punto che Montolivo sussurra ai compagni «ragazzi, siamo proprio una squadra». Con quattro leader. De Rossi, Buffon, Pirlo, il Chiellini che si ferma nella zona mista a parlare, mentre gli altri sfilano via, come i più timidi, tipo Abate, che si aggrappano al trucco classico dei gregari, cioè la finta telefonata al cellulare. De Rossi arriva, saluta, rassicura. Tutto in lui è presente. L’unica cosa che in lui viene dal passato, è quella barba soffice e lunga che gli incornicia il viso.