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IL ROMANISTA Liedholm e Zeman, maestri col bello nel cuore

Zdenek Zeman

(M. Izzi) – Non amo sentire disquisire di tattica, mi scuserà, ad esempio Franco Astrologo, ma quando arriva la sua “lavagna”, afferro il telecomando con la stessa velocità di un pistolero di Sergio Leone. Non ho mai potuto reggere le frecce, le diagonali, o gli spostamenti delle pedine sulle lavagne magnetiche. Cado dalla sedia quando devo leggere articoli del tipo: “L’angolo della tecnica”. Mi piace e molto, invece, ascoltare gli allenatori che discutono concretamente della propria filosofia di gioco e dei propri metodi di allenamento. Nella redazione del Romanista tutti sanno che sono un “Liedholmiano” osservante e quindi nessuno si stupisce più di tanto che continui imperterrito a documentarmi sul pensiero del sommo maestro giallo-rosso. Più perplessità ritengo, proporrà il mio confronto tra le “filosofie” calcistiche del Barone e di Zdenek Zeman. Parlo di perplessità ma è un modo carino per dire che credo che più di qualcuno s’incazzerà almeno un poco: «Ma come, la ragnatela di Liedholm con il 4-3-3 di Zeman? Ma che ce vo’ prende in giro?». Capirei la reazione ma riparliamone alla fine di questo articolo. Nel 1980, La Compagnia Editoriale diede alle stampe “Manuali della tecnica calcistica”. Il libro proponeva un capitolo: «Impostazione di una squadra», dedicato ad una chiacchierata di Gianni Petrelli con Nils Liedholm. Devo dire che leggerlo è stata una rivelazione, a partire da questo passaggio del ragionamento del “Barone”: « Il criterio fondamentale attorno a cui faccio ruotare i sistemi di preparazione è l’abolizione dei ruoli. Non voglio dire che intendo eliminare anche le mansioni e i punti di riferimento. Sarebbe l’anarchia. Ma è bene che i giocatori si abituino a fare di tutto in tutte le zone del campo. Gli schemi rigidi, come ho già detto non fanno parte del mio gioco». E’ un concetto certamente di matrice zemaniana ma con tre lustri d’anticipo sull’esplosione del fenomeno della prima zemanlandia foggiana. L’intervistatore rimase sorpreso almeno quanto il sottoscritto, visto che ricordò a Nils, che lui era lo stesso allenatore che aveva dichiarato di sognare una squadra: «con 11 registi». Liedholm precisò che si trattava di un paradosso e incalzato dalla questione della ragnatela osservò: «Con la ragnatela avevo adattato semplicemente la tattica alle caratteristiche dei giocatori che avevo. Questa se mi permetti si chiama duttilità. Il possesso della palla è un concetto che non modifica nessuna iniziativa d’attacco. Dà piena libertà d’azione al solista e tende a sfiancare l’avversario per distrarlo e colpirlo nel lato sguarnito. Non è neppure detto che sia un gioco noioso. Se al possesso prolungato del pallone si accoppia una buona tecnica individuale, può diventare persino divertente. L’indugio in ogni caso prepara sempre vampate a sorpresa, che sono momenti altamente spettacolari». Spettacolo, altra parola cara a Zeman nel contesto di un concetto che viene ribadito: «Un giocatore ha bisogno di essere inserito in un meccanismo in cui sia stata abolita la specializzazione. Io sono un acceso fautore dell’intercambiabilità dei ruoli che rende meno prevedibili le azioni». Andiamo su un altro tema cardine. Zeman è l’offensivista per antonomasia del nostro campionato, Liedholm rivendicava anche per se stesso la medesima etichetta. Ancora una volta gli viene contestato: «Ma lei ha detto che l’attacco ideale non dovrebbe avere nemmeno una punta». «E’ vero – risponde lo svedese – sono un’offensivista anche quando abolisco le punte. Ma non c’è contraddizione con i miei principi tattici. Se non credo alla rigidità dei ruoli, è coerente pensare che i difensori o i centrocampisti possano trasformarsi in attaccanti temibilissimi (…)». E se dovessi rispondere alla domanda del perché sei un’offensivista? «Per prudenza, o se vuoi per paura. Neanche questa è una contraddizione. Appartengo alla vecchia generazione, che ha fatto tesoro di antiche massime. Anche io credo insomma che la miglior difesa sia l’attacco. Non è mai piacevole veder danzare a lungo il pallone nella propria area. E’ sempre e comunque meglio che danzi nell’area avversaria». Credo che questo intervento sia assolutamente magistrale. Queste sono le basi su cui poggia l’intero “mondo tecnico” del primo Sacchi ma anche di Zeman. E non scordiamo che l’attuale tecnico della Roma è lo stesso uomo che ha dichiarato: «Non sono d’accordo sul fatto che il mio modulo, sia immodificabile. Quando inizia una gara si prendono i punti di riferimento e le fasi di una partita ti portano ad essere, in campo, anche in maniera diversa da come inizi. Il mio non è un 4-3-3 rigido: se attaccano gli esterni difensivi, Cafu e Candela e se addirittura lo fanno insieme diventa un’altra cosa». C’è forse un elemento che crea uno scisma irrimediabile tra Arrigo Sacchi e il duo Liedholm-Zeman. Con Sacchi il calcio diventa ossessione, applicazione fanatica, totalizzante, in cui il “bello” e il “divertente” perdono significato. Il collettivo di Sacchi non “crea” gioco, se mai, lo applica, trasformando le visioni degli schemi in un’applicazione mistica. In Zeman e in misura maggiore in Liedholm, la componente ludica sopravvive, come il motivo della “sfida” ai propri limiti. Penso ad esempio all’esercizio del cerchio di Liedholm. Dei bei cerchi lasciati in giro per il campo e i “ragassi” che con un lancio lungo devono far rimbalzare la palla proprio in quello spicchio del terreno di gioco. L ’altro elemento che mi ha impressionato è la grande vicinanza di Zeman a Liedholm per quanto riguarda il concetto “d’insegnamento”. Tanti grandi allenatori pretendono il giocatore completo, formato, loro si propongono sistematicamente l’obiettivo di migliorare il calciatore che è a propria disposizione: «Per gli attaccanti è più difficile afferrare i concetti del calcio totale. Per la tirannia del risultato sono assorbiti dall’idea fissa del gol. Non gli resta né il tempo né la voglia di partecipare alle varie fasi del collettivo (…) io insisto con l’addestramento. Non c’è vizio d’origine che non si possa perlomeno attenuare. Ne discuto. E sul campo torchio a dovere. Prima o poi a qualche risultato approdo». Quel “torchio a dovere” sembra tirato fuori dalla gola del Boemo sì o no? La mitologia dei primi ritiri della Roma di Zeman parla dei giocatori che si nascondevano nel camioncino degli attrezzi per risparmiare almeno i chilometri che dividevano l’albergo dal campo di allenamento. Ci sono poi i gradoni, i percorsi di guerra, lo sappiamo tutti. Anche Liedholm non scherzava. Tra quelli a faticare di più c’era il grande Agostino Di Bartolomei, alla perenne, quanto impossibile, ricerca dell’unica qualità che mancava alla sua collezione di splendido fuoriclasse: “la velocità”. Nella Roma del boemo del resto, c’era Di Biagio, uno dei prototipi del calciatore zemaniano, eppure non propriamente un fulmine di guerra. Il “fulmine di guerra”, nella Roma del Barone era Francesco Rocca, i suoi record sul percorso di guerra non sono mai stati, non dico battuti, ma neanche avvicinati. Quanto starebbe bene Rocca nella Roma di Zeman? Francesco Rocca, l’uomo che secondo Liedholm avrebbe reso “imbattibile” (testuale) la Roma del 1983-84, sarebbe stato il prototipo perfetto del 4-3-3, ne sarebbe stato “la grande anima”. Si passa poi a trattare le metodiche di preparazione del primo ritiro della Roma di Liedholm, vale a dire quello di Brunico 1979. «In ritiro – spiega Nils – per la prima settimana niente pallone. In compenso molta atletica. Si inizia con la corsa lenta, si passa quindi alla corsa di resistenza, alla ginnastica con o senza pesi, ai cosiddetti percorsi di guerra, cioè corse a cronometro in un sentiero boscoso, intervallate da pau
se obbligatorie. (…) Quando vedo che qualche giocatore è insufficiente nell’uso di un piede o di testa, o nel palleggio, o nei dribbling, gli faccio il doposcuola. Lo trattengo cioè un po’ di più in campo e lo mando negli spogliatoi solo quando comincio a notare qualche piccolo miglioramento
». E’ chiaro che su questo versante il paragone risulta difficile ma anche all’inizio degli anni 80 appare evidente come Liedholm avesse ben chiara l’importanza di puntare sul fondo, sulla resistenza, oltre che sulle doti tecniche. C’è poi la parte più divertente, quella legata “all’etica del campo”. Esiste qualcosa che fa arrabbiare il Liedholm allenatore? «Li diffido (i suoi calciatori N.d.A.) soprattutto da provocare punizioni contro. Per me è un peccato mortale. Da evitare a tutti i costi». Sono sufficienti i tuoi sermoni? «Magari fosse così. Occorre allenarli anche a non commettere falli. C’è sempre una fase della preparazione dedicata ai tackle. Insegno a portar via il pallone in agilità. Li faccio scontrare a coppie, a volte a gruppetti di 4 o 5. Chi commette scorrettezze va fuori gioco e paga da bere per tutti. Se poi capita in partita m’inquieto come ti ho già spiegato». Quel “m’inquieto” vale più di un discorso e ancora una volta ricorda alcune battute lapidarie di Zeman. Del resto Zdenek, l’ho già scritto, ha avuto un privilegio eccezionale per un tecnico che allena la Roma. Ha avuto Nils Liedholm al suo fianco nel giorno del raduno della sua nuova Roma. Un po’ come Dante scortato da Virgilio. Quel giorno, nel diluvio di flash e di curiosità che venivano riservate alla sua Roma, Zeman trovò il tempo per raccontare come aveva sempre ammirato la Roma dello svedese e che a suo tempo ne era stato un attento osservatore. C’è poi quel quid che rende Liedholm inarrivabile per tutti, anche per Zeman (perdonatemi ma io sono figlio di quella Roma e di quella squadra rimango innamorato). Perché non si arrabbia quando la Roma prende gol? «No, al gol non c’è rimedio. Perché dovrei inquietarmi? Mi dà più fastidio quando qualche giocatore non si sforza di prevedere l’evolversi dell’azione. Nel gioco moderno, bisogna saper giocare e “vedere” a tutto campo». Giusto?

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