(F. Bovaio) – La Roma e l’Inghilterra, un rapporto controverso che fino al termine degli Anni 50 ha visto la società giallorossa mostrare una particolare attrazione per gli allenatori d’Oltremanica ma che, a tutt’oggi, non l’ha mai portata a prediligere giocatori inglesi. Anzi, allargando il discorso a tutta la Gran Bretagna, comprendendo dunque anche la Scozia, le due Irlande e il Galles, in 85 anni di storia la Roma ha avuto alle sue dipendenze solo un figlio di quelle terre. Ci riferiamo al gallese John Charles, il “gigante buono”, l’attaccante che venne nella Capitale quando era ormai a fine carriera dopo aver dato il meglio di sé con la Juventus, in un periodo in cui la Roma era spesso considerata il “cimitero degli elefanti”.
Intendendo, con tale espressione, la squadra dove venivano a racimolare gli ultimi spiccioli di carriera quei campioni ormai in procinto di attaccare gli scarpini al fatidico chiodo. Ma Charles era gallese e non inglese, per questo la casella dei giocatori made in England in giallorosso resta desolatamente vuota. A cosa si deve questa idiosincrasia della Roma per i figli d’Albione non è facile da capire, anche perché nel momento della sua nascita ingaggiò proprio un tecnico inglese, William Garbutt, per provare subito ad imporsi come la realtà calcistica principale del Centro-Italia.
La squadra che questa parte del nostro Paese avrebbe dovuto opporre alle grandi tradizionali del Nord quali erano a quei tempi le milanesi, le torinesi, il Genoa e il Bologna. Nel 1927, infatti, Garbutt era considerato l’allenatore più forte presente in Italia, dove era arrivato nel 1912 per sedersi sulla panchina del Genoa, con il quale, in 15 anni, aveva conquistato gloria, fama e tre scudetti. “Willy” fumava la pipa, giocava a cricket e come tutti gli inglesi (anche se non lo confessano mai facilmente) amava il nostro Paese, perché qui aveva il sole e il buon cibo che tanto gli mancavano nella madre patria. Come allenatore Foschi pensò subito a lui quando dette vita alla Roma perché riteneva che nessuno meglio di quell’inglese ormai italianizzato poteva condurla tra le grandi di un calcio del quale conosceva ormai ogni segreto. E Garbutt accettò subito la proposta. L’idea di venire nella Capitale gli piaceva.
Nella Roma introdusse metodi di allenamento all’avanguardia, come ad esempio i pioli in campo tra i quali far svolgere ai giocatori i dribbling in velocità. Ma soprattutto alla Roma introdusse il concetto di un calcio meno artigianale e più organizzato, basato sullo spirito di corpo e sulla preparazione fisica. Qui restò solo due stagioni, le prime, nelle quali conquistò la Coppa Coni e portò la squadra all’ottavo posto nel 1927- 28 e al terzo nel 1928-29, gettando le basi su cui costruire il futuro del nuovo club. Dopo il breve intermezzo di Guido Baccani nelle prime 7 giornate del campionato 1929-30 la panchina fu riaffidata ad un mister inglese a partire dall’ottavo turno: Herbert Burgess. Costui portò nella Roma il cosiddetto “gioco incrociato”, ovvero quegli improvvisi mutamenti di posizione in fase d’attacco tra il mediano sinistro (che andava all’ala destra) e quello destro (spostato all’ala sinistra) o tra le mezzeali al fine di confondere i mercatori avversari. Burgess era un grande preparatore atletico e con lui la squadra arrivò seconda nel campionato 1930-31 segnando 87 reti, che costituiscono tuttora il suo record di gol in un singolo torneo.
Alla nona giornata del campionato seguente (1931- 32), però, Burgess fu esonerato da Sacerdoti anche perché alcuni dirigenti, ai quali era inviso, lo accusarono di parteggiare troppo per i giocatori e di bere oltre il consentito. Di sudditi di Sua Maestà sulla panchina della Roma si tornerà a parlare nel biennio 1953-55 con Jesse Carver, che la fece giocare proprio all’inglese: lunghi lanci dalle retrovie e cross dalle fasce per le punte. Lasciò dopo due sesti posti e dopo il primo periodo dell’ungherese Sarosi trovò il suo erede in Alec Stock, l’ultimo allenatore british in giallorosso, dove tra l’altro durò pochissimo, appena tre mesi. Venne allontanato prima di Natale sia perché la squadra non era più abituata a giocare un calcio muscolare e monocorde come quello anglo-sassone, sia per le continue liti con il direttore sportivo Busini. I legami diretti tra la Roma e il football d’Oltremanica finiscono qui. Tanti altri ce ne saranno sul campo, figli di sfide spesso infuocate che le hanno portato più dispiaceri che gioie. La finale con il Liverpool dell’84 e il 7-1 subito a Manchester sono le pagine più nere per quello che riguarda i primi. La conquista della Coppa delle Fiere 1960-61 al termine della doppia finale con il Birmingham, la vittorie per 3-0 con l’Ipswich Town nella Coppa Uefa 1982-83 e i successi all’Olimpico con lo stesso United (2-1) e il Chelsea (3-1) nelle più recenti edizioni della Champions sono i momenti più esaltanti delle seconde. In queste ultime due affermazioni De Rossi c’era e siamo convinti che oggi se le ricorderà sicuramente quando arriverà il momento di scendere in campo per eliminare l’Inghilterra.