(R. Maida) – Ecco il generale. Così a Verona chiamavano Michael Bradley, l’americano umile, l’organizzatore silenzioso, il professionista scrupoloso. Che in un anno di serie A ha cancellato il pregiudizio trasformandolo in un plusvalore: negli Stati Uniti si può giocare a pallone, anche ad alto livello. E adesso Bradley, che parla già un ottimo italiano, ha l’occasione di diventare grande. (…) Sarà il primo statunitense della storia della Roma e il centoquarantreesimo straniero di sempre. Ma Sabatini garantisce che non si tratta di un’operazione di marketing. Non solo, almeno. (…)
Bradley, finalmente è a Riscone con la maglia della Roma addosso.
«Sì, è tutto fatto. Non vedevo l’ora che la trattativa si chiudesse. Ora sono molto stimolato, ho fretta di entrare nei meccanismi della squadra e di imparare i metodi di lavoro di Zeman».
Bravo e soprattutto americano. Così la descrivono. Come risponde a chi sostiene che l’acquisto di Bradley sia una trovata pubblicitaria?
«Si parla, si dice. Non posso controllare ogni discorso. Ma io lavorerò per dimostrare in campo di avere meritato la Roma. Se sono stato scelto non può essere solo per una questione di immagine. Lo scoprirete…».
Beh, sicuramente l’ingaggio di un calciatore americano servirà alla Roma per promuovere il marchio negli Usa.
«Questo mi fa piacere. E’ un orgoglio per me rappresentare il mio Paese all’estero».
Nella Roma non ha mai giocato un calciatore che viene dagli Usa.
«Ancora meglio. Chiunque faccia soccer negli Stati Uniti, sogna di giocare in una squadra così importante. Perciò adesso che ho realizzato il mio obiettivo, cercherò di dare il massimo per esprimere le mie qualità».
Del resto lei è abituato a battere i luoghi comuni. Un tempo dicevano che Bradley giocava in nazionale perché suo padre Bob era il commissario tecnico.
«E’ normale. Ma poi è il campo a decidere. Nessuno ti regala nulla. E se ora sono alla Roma forse qualcosa di buono ho fatto nella mia carriera».
Cosa le ha detto suo padre quando si è chiuso il trasferimento?
«Era felicissimo. Perché sapeva quanto io fossi determinato a giocare nella Roma».
E Jurgen Klinsmann, l’attuale ct degli Stati Uniti, le ha dato qualche consiglio visto che conosce bene la serie A?
«Nessun consiglio. Mi ha solo telefonato e fatto i complimenti».
Quale altro calciatore americano meriterebbe la serie A?
«Clint Dempsey del Fulham. Ha già dimostrato di avere grande talento e personalità».
Più in generale, qual è il livello della sua nazionale? Dopo la finale della Confederations Cup del 2009 i risultati non sono stati esaltanti.
«Ci sono potenzialità. Il gruppo è giovane e si sta preparando per i Mondiali del Brasile. Non so dove potremo arrivare ma ci stiamo attrezzando per essere competitivi».
E il calcio, come fenomeno culturale, a che punto è arrivato?
«Stiamo crescendo anno dopo anno. Molti ragazzi adesso si avvicinano al calcio. Poi è chiaro, non siamo ancora al livello del football o del basket».
Bradley non si è mai visto come star di uno degli sport più seguiti in America?
«No. Ho un padre allenatore. Non ho mai pensato ad altro che al calcio. Era la mia passione sin da bambino».
Dall’Italia non guarda le finali Nba o il Superbowl?
«Qualche volta sì, ovviamente. Ma non impazzisco per gli altri sport. A me piace il calcio».
James Pallotta e gli altri proprietari della Roma sono conosciuti negli Usa?
«Devo essere onesto, io non li conoscevo. Ma se hanno acquistato la Roma, significa che sono dei manager capaci».
Adesso c’è la tournée americana e avrà modo di incontrarli. Intanto è arrivato nel ritiro di Riscone. Come conquisterà la fiducia di Zeman?
«Sono un centrocampista che si impegna per difendere e attaccare. Amo dedicarmi alle due fasi. Non so dove voglia schierarmi Zeman, posso giocare regista oppure interno. Deciderà lui, io sono a disposizione».
Qual è la migliore qualità che si riconosce?
«Non mollo mai. Lotto su ogni pallone. Credo che queste caratteristiche in un calciatore vengano apprezzate».
A Verona cosa lascia?
«La sensazione di un’esperienza bellissima. Ho imparato una nuova lingua, ho conosciuto una realtà magnifica. E ora devo ringraziare il Chievo, la società che mi ha lanciato in serie A. Senza questo passaggio non sarei mai arrivato alla Roma».
A Roma cosa porta?
«Mia moglie Amanda, che ho conosciuto nel New Jersey, la mia terra. E’ incinta di sette mesi, aspettiamo il primo figlio. E poi sarò accompagnato dal mio piccolo cane, Oliver. Sono i miei amori. Ammetto che sono curioso di conoscere la città: non ci sono mai stato, se non per le partite e per le visite mediche che ho fatto qualche giorno fa».
La città non potrà non piacerle. Della Roma invece cosa pensa?
«Da fuori mi sembra una grande squadra, piena di giocatori di fama internazionale. E’ bello allenarsi con loro».
Da scudetto? Totti dice di no.
«Non so a che punto siamo, anche perché la trattativa con il Chievo è appena finita. Sarebbe sbagliato fissare adesso degli obiettivi. Però proveremo ad arrivare il più lontano possibile».