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CALCIOSCOMMESSE Le verità di Simone Bentivoglio: “Se parlo rischio la vita”

Bentivoglio

Il giocatore del Chievo, Simone Bentivoglio, che ha patteggiato 13 mesi di squalifica, racconta la sua storia:“A Bari vivevamo in un clima di terrore. Io amo il calcio, ma tengo di più alla mia vita: non era possibile denunciare. E non ho commesso alcun illecito”. Poi aggiunge: “Il calcio italiano è il regno dell’ipocrisia, quando potrò tornare a giocare andrò all’estero”

Simone Bentivoglio, centrocampista del Chievo, un anno e un mese di squalifica patteggiato al processo per il calcioscommesse, anche lei si ribella alla giustizia sportiva. Ma perché soltanto ora?

“Perché ho letto l’intervista del mio collega Italiano a Repubblica.it e le sue parole mi hanno spinto a raccontare anche la mia storia: non mi va di passare per un criminale che si vendeva le partite. E’ il meccanismo della giustizia sportiva che è distorto: io, sia ben chiaro, ho sempre fatto il calciatore con impegno, fino in fondo e con dignità, anche in una situazione gravemente compromessa dal punto di vista ambientale, come era quella di Bari. Io amo il calcio, ma tengo di più alla mia vita: non era possibile denunciare, avrei rischiato appunto la vita”.

Eticamente, quindi, non si sente colpevole?

“No. Io non mi sono mai sognato di vendere una partita: rifiuto con tutte le mie forze un’etichetta che non mi appartiene. Io voglio che esca fuori la verità. E la verità è che il calcio italiano è il regno dell’ipocrisia: meglio andarsene”.

Ma il patteggiamento è un’ammissione delle proprie responsabilità. 

“A un certo punto dell’intervista Italiano dice: ‘Non escludo che ci sia chi ha patteggiato per scegliere il male minore, anche se magari sapeva di non avere fatto nulla’. Beh, io mi riconosco proprio in questa condizione”.

Sta dicendo che l’hanno costretta a patteggiare?

“Costretto in senso stretto no, diciamo meglio che mi hanno fatto ragionare. Chi mi stava attorno e mi vuole bene mi ha fatto capire che giustizia non ci poteva essere, nonostante tutte le prove emerse a mio favore e nonostante avessi sempre giocato a calcio nel rispetto delle regole. Se non avessi patteggiato, avrei rischiato tre anni e sei mesi di condanna, senza nemmeno potere essere ascoltato”.

Il male minore, appunto.

“A 27 anni, dopo avere dedicato tutto me stesso al calcio per diventare professionista e per arrivare al livello più alto, una condanna a tre anni e sei mesi significava in pratica chiudere la carriera. Mi hanno ricordato anche che, se sei un certo tipo di giocatore, più importante, puoi avere un certo tipo di trattamento, altrimenti no. Così mi sono convinto a chiudere il processo col patteggiamento. Sono stato condannato a un anno e un mese, più cinquantamila euro di ammenda. Ma per questa storia continuo a non chiudere occhio. Allora ho deciso di raccontare a tutti che cosa è successo sul serio, visto che nel processo non ho potuto farlo”.

Lei era accusato di un illecito (Palermo-Bari 2-1, del 7 maggio 2011) e di due omesse denunce (Bari-Samp 0-1, del 23 aprile 2011 e Bari-Lecce 0-2, del 15 maggio 2011). La vicenda di Palermo-Bari è tra le più note dell’intera inchiesta: alla vigilia Ilievski, il capo degli ‘zingari’, entra nella sua stanza in ritiro e lascia i soldi lì, per lei e per i suoi compagni, in modo da garantirsi la certezza che non poteste tirarvi indietro nel combinare la partita. ‘Bentivoglio sbiancò in volto’, ricorda Ilievski.

“Tutto vero. Illecito no, mai. Non ho mai preso quei soldi, né tanto meno li ho voluti: tutte le testimonianze concordano su questo, a cominciare proprio da quella di Ilievski, il corruttore. Quel giorno rimasi sotto choc, sbiancai in volto proprio perché non mi aspettavo un’invasione del genere. Ma quei soldi non li raccolsi mai. E decisi di giocare col massimo impegno, altro che combine. Segnai un gol e sfido chiunque  a rivedersi quella partita e a dimostrare che io non abbia giocato per vincere. Che cos’altro avrei dovuto fare?”.

Denunciare il tentativo di illecito, come hanno fatto in altre circostanze i suoi colleghi Farina e Pisacane: l’omessa denuncia, per il codice sportivo, è reato.

“Lo so e di questo mi assumo la responsabilità. Però non accetto l’ipocrisia. Io ho raccontato alla procura federale che cosa è successo in quei cinque incredibili mesi a Bari, dal gennaio al giugno 2011. Volevo che si capisse la verità, il clima surreale che si era creato e in cui ci trovavamo a vivere ogni giorno noi calciatori. Non eravamo nelle condizioni di denunciare, avremmo rischiato la vita. Potevamo soltanto continuare a fare il nostro dovere in campo, come io ho sempre fatto. Forse ci sarebbe stato un altro modo, per uscirne: inventarsi una scusa e non scendere in campo. Ma non sono il tipo, amo troppo il mio mestiere”.

Il patteggiamento non l’ha aiutata.

“Io non volevo patteggiare, illeciti non ne ho commessi. Il presidente Campedelli, che mi è stato e continua a starmi vicino, a pagarmi lo stipendio e a farmi allenare con la squadra, mi ha chiamato e mi ha convinto che era l’unico modo per sperare di tornare a giocare”.

Era davvero così impossibile ribellarsi agli zingari?

“Mi rendo conto che non è facile accettare l’idea che il calcio italiano funzioni in una determinata maniera, così sbagliata, ma non l’ho deciso io. Io sono un calciatore: posso solo cercare di fare il professionista nel migliore dei modi, impegnandomi al massimo. Di sicuro, a Bari, le condizioni erano le peggiori per riuscirci, eppure io lo facevo. I tifosi non mi hanno mai potuto rimproverare il mancato impegno”.

Può riassumere il clima di cui parla?

“Un clima di completo terrore: si andava al campo e si sapeva che qualcosa di brutto poteva sempre succedere. La squadra andava male, ma gli sputi e gli insulti, mentre attraversavi la strada per andare al campo ad allenarti, erano il meno. Era l’ambiente in generale ad essere molto strano. Si sentiva sempre che nell’aria c’erano cose anomale: no, non c’era decisamente nulla di normale. L’idea di potere giocare a calcio tranquilli, per ognuno di noi, era una chimera”.

Esempi concreti?

“Basta rileggersi l’intervista di Ilievski a Repubblica per rendersene conto: dalle organizzazioni criminali che, approfittando della nostra retrocessione, potevano manovrare le partite per lucrarci sopra, alla squadra avversaria che ti poteva chiedere di vincere la partita, perché tanto tu stavi retrocedendo e vincere non ti sarebbe servito a niente. Sia ben chiaro che io non ho mai venduto una partita, ho solo cercato di continuare a fare onestamente e dignitosamente il calciatore. Putroppo gli effetti di quei mesi me li porto dietro da allora. Per cominciare, il campionato successivo dovetti scappare dalla Samp”.

Scappare?

“Sì, anche lì la squadra andava male e c’era una contestazione molto forte. Mi sputarono in faccia, col solito ritornello: “Ti vendi le partite”. Era ovunque un accanimento, una tortura psicologica. Durante il riscaldamento, in molti stadi, la gente mi insultava, l’ostilità nei miei confronti era una costante. Passavo le notti insonne. Andai al Padova a gennaio, ma la pressione mediatica restava forte. Questo è il calcio italiano: lapidare senza prove”.

Per questo, finita la squalifica, vuole andare a giocare all’estero?

“Ripeto quello che ho già detto: io amo il calcio, però non lo amo più della mia vita stessa. E se mi ricapitasse di dovere vivere quello che ho già vissuto? Non mi voglio più ritrovare a passare momenti del genere. Se in Italia fare il calciatore significa doversi preoccupare di tutta una serie di situazioni ambigue, esterne al proprio lavoro, io non voglio più fare il calciatore in Italia”.

Lei, per ora, è rimasto al Chievo.

“Io devo solo ringraziare Campedelli e la società, che mi permettono di allenarmi con la squadra e non mi hanno abbandonato, perché hanno capito che cosa è successo. In un altro ambiente mi avrebbero voltato le spalle. Invece sono ancora sotto contratto, sono fortunato. Ma se fossi veramente colpevole, non mi farebbero allenare col resto della rosa. Ai miei amici, del resto, non ho mai avuto problemi a raccontare tutto, perché non ho nulla da nascondere. Era giusto che sapessero la verità, mi sentivo in dovere nei loro confronti. Ma il calcio italiano non riesco più a guardarlo nemmeno in tivù”.

E’ così sicuro che il calcio straniero sia migliore?

“Spero di sì. Ogni tanto guardo qualche partita internazionale. E vedo un mondo diverso”.

Fonte: repubblica.it

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