(S. Di Segni) – Ha ragione l’avvocato Baldissoni, quando dice che «è difficile contare solo un anno, ne devo aggiungere almeno un altro di lavoro sull’acquisizione, altrettanto intenso». La prefazione alla storia della Roma americana è una trattativa estenuante: mettere le mani sul club giallorosso è stata di per sé la prima impresa compiuta dai quattro amici del Massachusetts, all’epoca capitanati da Thomas Richard DiBenedetto.
Dello statunitense, a dodici mesi esatti dalla storica firma per il passaggio di consegne, va ricordato il ruolo chiave rivestito in fase di negoziazione con Unicredit: ballarono a lungo le aspettative della piazza, delusa dai passaggi a vuoto di quanti si erano avventurati senza successo alla conquista dell’ex società dei Sensi.
Oggi la Roma born in the Usa ha il volto di James Pallotta e dei manager scelti per stravolgere i vecchi costumi. Il dg Franco Baldini, il ds Walter Sabatini e i due ad Mark Pannes e Claudio Fenucci: quattro dirigenti senza un faccione, perché la filosofia americana non contempla il presidente padrone. Dopotutto, è sufficiente sapere che alle spalle ci sia un gruppo di finanziatori con le idee chiare: oltre novanta milioni di euro investiti sul mercato, in fondo, sono l’indizio dietro al quale il tifoso dovrebbe sentirsi al sicuro.
C’è il progetto troppe volte schernito, poi, con i suoi punti cardine, capaci di resistere anche alle sconfitte: lo stadio di proprietà, il rilancio del brand, la sistemazione del bilancio, la ricerca di un gioco attraente, la caccia ai talenti. Giù risate, con il modello barcellonesco, come se potesse prendere corpo in un batter d’occhio: il passaggio da Luis Enrique a Zdenek Zeman racconta che non tutto è filato liscio, ma il compleanno della Roma americana può essere celebrato nel segno del dinamismo. Sul mercato e non solo. (…)