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LA REPUBBLICA Addio a Maldera campione di stile

Maldera

(A. Vocalelli) – Era una figurina anticaMaldera III, ingiustamente terzo, visto che per bravura, stile, generosità, intuito e intelligenza, era sicuramente un numero uno. Era una figurina antica, Aldo Maldera, con i capelli che sfumavano dal caschetto dei Beatles alla frangetta degli idoli di casa nostra, con quei baffi folti, arrampicati su un sorriso che si spegneva sempre nella solita smorfia, in quella mascella dura ad accompagnare l’inconfondibile figura forte del suo mento. Era una figurina antica Maldera III (sì, si, terzo solo perché due fratelli lo avevano anticipato nel calcio), ma anche un giocatore sfacciatamente moderno. Il terzino più amato da Rivera, che si divertiva a scoprire se al decimo battito del cuore, perché tanti ne servivano al compagno per bruciare sessanta metri da una parte all’altra Aldo fosse già lì, pronto a confermare, quanto fosse geniale l’Abatino, che senza guardare lo metteva in porta. E lui, gregario generoso, portava i gol come Lodetti metteva i polmoni, alla grandezza di Rivera. Ma non dev’essergli dispiaciuto, anzi, poi dimostrare, a se stesso prima ancora che agli altri, di poter essere Aldo Maldera, finalmente senza un numero romano proprio nell’avventura a Roma e finalmente senza il genio ispiratore del compagno.

A Liedholm, stavolta, poteva anche bastare che lui facesse il comprimario, non il goleador, perché a quello pensava Pruzzo. Campione d’Italia, un’altra volta. Gli piaceva il suono del mare, e per questo aveva comprato una casa a Fregene, si sentiva un principe tra le sue quattro donne: dalla moglie Alessandra alle figlie Consuelo, Desirée e Matilde. Aldo Maldera aveva trovato il suo regno speciale a pochi chilometri dalla Capitale, dove nel 1983 aveva vinto il secondo scudetto della sua carriera e soprattutto la gente aveva imparato ad amarlo per la serenità e l’umiltà. Piaceva l’uomo, ancora prima del campione. Un campione vero, un terzino all’olandese, aveva corsa e progressione, cercava il tiro da fuori area, arrivava sul fondo, faceva la differenza con la spinta e con i cross. Difensore, ma anche centrocampista esterno.

Una carriera cominciata nel vivaio del Milan, poi il prestito al Bologna nel 1972-73, il ritorno in rossonero, uno scudetto e due Coppe Italia, in attesa di legarsi alla Roma di Dino Viola e Nils Liedholm. Aveva un rispetto sacro per la maglia, per il popolo degli stadi, per i compagni. Mai una polemica, mai un atteggiamento da divo, mai uno strappo con un allenatore. E il nuovo calcio, più avanti, gli sembrava un mondo troppo distante e diverso da lui, anche se aveva scelto di diventare allenatore. Prima le giovanili della Roma, poi l’avventura da direttore tecnico in Grecia, nel Panionios, il ritorno in Italia e la collaborazione con una scuola- calcio di Focene. Una serenità spezzata, qualche settimana fa, dalla notizia di un’improvvisa malattia. L’intervento chirurgico, la speranza, l’amore delle sue donne e dei suoi amici più cari. Fino a ieri mattina, quando il suo cuore si è fermato. In silenzio, a 58 anni. Addio, Aldo.

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