(B.Bartolozzi) – I cinque gol fatti finora dalla Roma sono dei capolavori, l’assist di Totti per Osvaldo, poi, è stata un’opera d’arte. Le iperboli a contenuto estetico non sono mai mancate nel calcio. L’avvocato Agnelli accostò Alex Del Piero a Pinturicchio e per un periodo si misurarono i profili dei calciatori e quelli dei pittori sfogliando con una mano l’almanacco Panini e con l’altra Le Vite del Vasari. Qualcuno ironizzò su quella moda, paragonando Duccio da Buoninsegna al quasi omonimo Roberto. Finì in risata o peggio degenerò in luogo comune.
Ma esiste davvero la possibilità di guardare al calcio se non nel’insieme, almeno in una sua giocata, in un suo tratto, come ad un’opera d’arte? […]
Il calcio è un gioco, una simulazione e in effetti l’arte nasce come Mimesi , imitazione. E nelle antiche Olimpiadi si premiavano gli atleti e gli artisti, nello stesso contesto. Ma c’è arte e arte. E nel corso dei secoli si è andata identificando un’idea di purezza che tenesse ad una certa distanza quelle discipline che comunque fossero compromesse con esigenze pratiche. La musica era in cima, visto che il suono è puro equilibrio matematico, la pittura più in basso, perchè si compromette con maggiori aspetti materiali. Ma è arte anche l’architettura che pure deve tenere conto, proprio come il calcio, di un fine esterno: i palazzi devono stare in piedi e devono consentire un uso (chiese, stadi, ponti) che prescinde dall’intuizione che rende poi quel manufatto un’opera d’arte. Così nel calcio: in fondo il fine esterno, il risultato da conseguire, è scritto al di fuori del colpo di tacco, della rabona ben riuscita, dell’assist che sembra teleguidato. Architettura e calcio, in definitiva, convivono con questi vincoli.
Anzi proprio dal contrasto con certi obblighi di utilità nasce la bellezza delle soluzioni, la peculiarità della forma artistica. In fondo l’arte, e in questo il calcio può essere a pieno una disciplina artistica come le altre, è legata all’illusione che crea. «Un’illusione che organizza lo spazio». Una grande studiosa di questo problema, l’americana Susanne Langer diceva che l’illusione artistica viene ricreata, in architettura, con un luogo virtuale dentro un luogo fisico. Come il calcio: in un dato momento, in una certa situazione, c’è un’esigenza esterna da conseguire, ma la si ottiene con un gesto che, per gli spettatori che lo vedono, ha un significato culturale sportivo dal valore artistico e che separa quell’atto da tutto il resto e lo mette in relazione con il sentimento. Ecco perchè una chiesa fiorentina che sembra un palazzo rinascimentale commuove e tocca la sensibilità di chi vive quella città, mentre sembra fredda a chi ha bisogno di guglie gotiche per immedesimarsi nel sacro. E così una giocata di un’ala brasiliana è apprezzata a Rio e lascia perplessi a Glasgow[…]
Poi c’è chi fa della dimensione estetica tutto o quasi. Quasi a compromettere – si diceva – il risultato. Una tentazione spiritualistica alla quale è bello abbandonarsi (o illudersi), in un mondo del calcio sempre più travolto dal tornaconto e dal’indotto economico. Questo mondo è stato capace di modificare la percezione e i modi con cui si arriva al risultato. Ma qualcuno reagisce. Vedere il calcio di Zeman, forse, è come rileggere un libro che è stato a la page alcuni decenni fa e che è tornato a far parlare di se per l’incidente capitato, giorni fa, al suo autore, il settantaseienne Richard Bach.
Si tratta del «Gabbiano Jonathan Livingston», la favola moderna della perfezione e della ricerca dell’atto estetico sopra ogni materialità. Il gabbiano Livingston venne allontanato dal suo stormo perchè sogna un mondo diverso, di purezza e perfezione. Il volo per il volo e non come mezzo per procurarsi solo del cibo. Le sue meravigliose evoluzioni incantavano, ma non erano capite. Non volle mai venire a compromessi. Come il suo autore che si è schiantato con un aereo in piena vecchiaia, inseguendo i suoi sogni alati, come Zeman che, all’ultima occasione, cerca di spiccare il volo restando sempre fedele a se stesso.