(D. Galli) È alla Samp. Ma si sa, al cuor non si comanda. Sarà per l’inossidabile fede juventina, fatto sta che dopo Vialli e Conte la nuova crociata degli anti-zemaniani può contare adesso anche sul sostegno di Ciro Ferrara. «Zeman è un piccolo uomo. È la prima volta che lo affronto come tecnico – ha detto il tecnico, doriano per contratto – ma non ho rivalse nei suoi confronti. In passato alcune dichiarazioni hanno leso l’immagine non solo del sottoscritto, ma pure di una società importante. Non posso accettare niente del genere, né per me, né per la Juve». Zeman non si è scomposto più di tanto. «La mia posizione è chiara, se la dovrebbe prendere con i tribunali o al massimo con se stesso», è stata la risposta del Maestro. Lesione dell’immagine.
Un’accusa grave, da codice penale, da querela per diffamazione. Ovviamente, una querela di Zeman contro Ferrara. Perché – e il buon Ciro si rassegni – non è stato certo il tecnico della Roma a stabilire nel 2007 che «dal luglio del 1994 al settembre del 1998» la Juventus aveva fatto assunzione di medicinali «in esecuzione del medesimo disegno criminoso». Non sono parole di Zeman, ma della Corte di Cassazione. Con la sentenza n. 21324, la seconda sezione penale accertò la frode sportiva. Secondo i giudici della Suprema Corte, il doping del club bianconero avveniva appunto attraverso l’illecita somministrazione di farmaci, tranne l’eritropoietina. La Cassazione annulla la sentenza in Appello di assoluzione per l’amministratore delegato Antonio Giraudo e il medico della Juve, Riccardo Agricola, ma la prescrizione evitò a entrambi un processo che a quel punto sarebbe dovuto ricominciare daccapo. Ma la macchia sui tre scudetti bianconeri – 1994/95, 1996/97 e 1997/98 – resterà per sempre.
E non certo per colpa di Zeman. Non solo. Estate 1998, è il 25 luglio, la Roma è in ritiro a Predazzo. L’ombra del doping è appena calata sul Tour de France, Facebook e Twitter non esistono, gli smartphone neppure, ma una dichiarazione di Zeman è talmente forte da fare immediatamente il giro d’Italia, se non d’Europa. «Il calcio sta cambiando. Purtroppo, aggiungo io… Io vorrei – dice il Maestro – che il calcio uscisse dalle farmacie e dagli uffici finanziari e rimanesse soltanto sport e divertimento». È l’inizio della fine. Per gli altri. A Torino, il pm Raffaele Guariniello apre un’inchiesta, inizia ad indagare, chiede a Zeman cosa sa. A ottobre, però, accade qualcosa di gravissimo. Accade a Roma. Si scopre che il laboratorio antidoping del Coni non funziona, non esamina, non è antidoping, è antiniente e che di acido c’è solo il clima che ormai circonda Zeman, il grande accusatore. Lo scandalo travolge l’allora presidente del Coni. Mario Pescante si dimette, il laboratorio viene chiuso e si comincia a capire che il problema non è il grande accusatore. Ma gli accusati. Che il problema non è Zeman. Ma il calcio nelle farmacie, i sistemi di controllo antidoping, Agricola, la Juventus e quei tre scudetti malati, ai quali ne sono seguiti un altro paio calciopolizzati, scartavetrati dalle maglie bianconere a forza di sentenze. Ferrara si arrenda. A condannare la Juve ci ha pensato la giustizia. Non Zeman.