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LA REPUBBLICA La pazza Roma si butta via, il Bologna rimonta e ringrazia

Stekelenburg

(E. Sisti) – Farfugliano, escono dallo stadio come automi. Sono sudati, i tifosi della Roma, increduli, stanchi, impauriti. Non riescono a farsi una ragione di ciò che hanno appena visto e non gli si può certo dar torto. Nel suicidio della Roma, cui hanno assistito impotenti, non c’è quasi niente di razionale. Il terzo errore, somma paradossale dei due che nel breve volgere di due minuti (27’ e 28’ st) avevano già regalato al Bologna prima l’1-2 e poi il 2-2, sono la negazione del calcio positivo e motivato che Zeman insegna e del concetto stesso di concentrazione agonistica, senza la quale non c’è gesto, buon proposito o filosofia tattica che tenga. A sbagliare, in perversa alleanza, sono stati Stekelenburg e Burdisso. Se una carambola di gambe e braccia così molli non s’ammetterebbe in un campo di categoria, in serie A diventa incommentabile.

Sembrava l’incrocio fra una barzelletta da cinepanettone e un atto osceno in luogo pubblico. Siccome però nel calcio si oppongono sempre due forze, le nefandezze dell’una si trasformano nella gloria dell’altra. Nella sua gioia. Per un’ora abbondante Gilardino aveva giocato da amatore, latitando appesantito. Ha approfittato di due anestesie della difesa giallorossa (colpevoli i già citati Burdisso e Stekelenburg, ma anche Castan e Piris) per elevarsi a matchwinner con un gol di qualità e uno di rapina (che è solo un altro modo di mostrare qualità). Suo anche l’assist per il 2-2 di Diamanti. Il Bologna ha avuto il merito di crederci. A immagine e somiglianza del suo centravanti, è apparso quando la Roma ha deciso di scomparire.

Nell’intervallo Pioli aveva inserito Pazienza e Pulzetti. Ammetterà Gilardino: «Contro una Roma che andava a 2000 all’ora si poteva fare davvero poco». Ma non è né merito di Pazienza, pur diligente, né di Pulzetti, pur più vigoroso di Guarente, se nel secondo tempo, abbassandosi apparentemente senza motivo, impaurita dalle ombre, la Roma ha optato per la crocifissione. O forse un motivo c’è: e allora in questo caso è sia fisico, troppo rapidi nella prima mezzora, che psicologico, pochi giocatori di personalità in mezzo al campo quando la personalità serve come il pane per gestire il risultato.

Quando hanno giocato alla stessa velocità la Roma ha perso e il Bologna ha vinto. Dall’illusione alla depressione il passo giallorosso è doloroso e maledettamente breve. Un trionfo non tira l’altro. Un trionfo prelude solo a un fallimento durante il quale si subiscono tre gol a difesa schierata. Zeman: «Credevamo di aver già vinto e invece la maggior parte di noi non è abituata a vincere. Forse solo Totti». Nemmeno Zeman, direbbero i maligni. Osvaldo, De Rossi e Bradley non erano disponibili. Così il boemo ha vissuto, colpevole e imbarazzato almeno quanto i suoi, il progressivo ridursi del possesso palla, lo smarrimento progressivo di energia e fiducia: «Non cercavamo più le giocate». Fantastici nella prima parte, Totti e Florenzi (ma anche Tachtsidis) sono calati perché, onestamente, non c’è nessuno che possa durare a certi ritmi. Qualcuno non aveva mai reso (Pjanic). Gli errori clamorosi della difesa sono figli di questa doppia identità: spumeggiante e contratta.

Ci sarà tempo e modo per recuperare, ma intanto gli animi sono già esacerbati e Lazio, Juve e Napoli sono già altrove. Nel cuore di molti tifosi s’annuncia l’ennesima stagione di finti equilibri e di montagne russe: con un colpo che riesce soltanto ai maghi consumati la Roma ha trasformato una partita vinta in una tragicommedia. È come se per 53 minuti, diciamo sino al possibile 3-0, al miracolo di Agliardi sul colpo di testa di Totti (8’ st), avesse recitato Catullo e nei restanti 40 avesse biascicato latino maccheronico. I gol di Florenzi e Lamela prima del raptus (6’ e 15’ pt) sono già dimenticati. O saranno ricordati alla rovescia: per aver innescato la miccia di un inatteso disastro

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