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ORA D’ARIA Juve in panchina la svista s’avvicina

Ora d'aria di Paolo Marcacci

“L’Italia è il paese che amo…”: poteva cominciare così la sua requisitoria contro il sistema mediatico che accerchia (!) la Juventus Andrea Agnelli, come fece nel 1994 un altro che mise in scena con successo lo stato di pericolo in cui versavano i suoi personali vantaggi e privilegi. Magari, nel caso del presidente juventino, inarcando il sopracciglio. Che siano stati messi in mezzo questo è indubbio però; io personalmente cambierei la forma del verbo da passivo a riflessivo: ci si sono messi, panchina compresa, tanto che quando hanno occupato il centro della scena, per discrezione i vari Gervasoni, Rizzoli, Maggiani si sono fatti da parte, un po’ come il “bibitaro” quando comincia la partita.  Quaranta  secondi, più o meno, per capovolgere un verdetto che a tutta Italia era parso cristallino; conciliaboli e facce esasperate, con espressioni contrastanti: incredulità crescente dei catanesi, veemenza autoritaria (non autorevole, che questo al potere nel nostro paese non è mai servito) della Juve, spezie comprese, quindi pure Pepe. Quaranta secondi in cui tutta l’Italia non juventina ha potuto meditare e rimuginare su tutte le volte in cui, nel passato, il proprio cammino si è trovato ad intersecare quello di Madama (soprannome da “poliziottesco” anni settanta); un’Italia viola-granata-giallorossa-nerazzurra-rossonera-gialloblù e tutte le altre tinte dell’arcobaleno, a seconda delle epoche e del tentativo di contendere, con lo squilibrio delle armi in dotazione che ben sappiamo, quella porzione di potere che, ogni volta che ha temporaneamente ceduto, la Signora (soprannome da b-movie erotico anni settanta-ottanta)  si è sempre ripresa con la forza, termine che da noi racchiude molteplici significati. Il piccolo spunto di riflessione, comune denominatore di tutte le epoche, è  che nella quasi totalità dei casi è passata in secondo piano la superiorità dei grandi giocatori che la Juve ha quasi sempre avuto rispetto all’incidenza delle decisioni arbitrali a suo favore. Cioè, nel tempo, ancor prima che essere ricordata per Boniperti-Sivori-Bettega-Platini-Baggio-Del Piero e compagni calciante, la Juventus è sempre stata sinonimo di “altro”, un cono d’ombra nel panorama della nostra storia calcistica. Questo dovrebbe essere frustrante per uno juventino, sarebbe una reazione istintiva; forse però una tifoseria che espone striscioni tipo “Il fine giustifica i mezzi” ragiona in maniera diversa, diciamo un po’ più italiana (italiota) di tutte le altre. Il fatto è che, da Turone in poi per restare all’era moderna, ogni volta ci si ritrova a fare gli stessi discorsi,  con la stessa indignazione e la stessa levata di scudi da parte di quella stampa che, passata la bufera, torna a braccetto con il potere o quantomeno a camminargli accanto senza intralciarne la marcia. E anche di tutti quei presidenti che si mostrano tarantolati quando e se colpiti sul vivo ma che poi in vari altri casi non si dannano certo l’anima, loro e i club che  rappresentano, per contribuire alla regolarità dei campionati. A questo tipo di dirigenti saremmo tentati di non dare solidarietà neppure quando si verificano obbrobri come quello del “Massimino”. Una nota di grande malinconia sta poi nella constatazione, anch’essa ciclica, che i grandi arbitri che abbiamo ammirato per autorevolezza e scarsa propensione al condizionamento,  una volta assurti a ruoli dirigenziali nel loro ambito, sbiadiscono come se fossero investiti dalla scolorina del potere. Era accaduto con Collina, poi con Nicchi, ora con il Braschi esitante e “burocratico” nelle risposte di domenica scorsa a Collovati e soci nel suo intervento alla DS. 

La minestra è sempre la stessa, resa più salata dalla sindrome da risarcimento che il popolo juventino ha contratto immediatamente dopo Calciopoli, con tanti italiani che beatificano Moggi su Twitter e una pletora di opinionisti televisivi, locali e non, che fanno i sofisti sui parziali vantaggi che ogni tanto toccano all’Italia non bianconera.  Personalmente, per non cadere nella ripetizione dei concetti e delle polemiche, sarei tentato di chiudere chiedendo in prestito un paio di versi al Maestro Guccini, quindi /Non starò qui a cercare parole che non trovo/ Per dirti cose vecchie con il vestito nuovo…/, ma la vera chiosa la affido ad un piccolo monito: il campionato italiano lo stiamo mollando, piano piano, nei numeri e negli interessi, questo anche le televisioni a pagamento cominciano a registrarlo; sempre di più preferiamo il calcio degli altri, dove lo spettacolo è migliore e gli errori sono distribuiti in maniera casuale e di conseguenza più equa. Rischiamo di finire come le elezioni in Sicilia: continueranno a dargli importanza i pochi vincitori e i coglioni che non vogliono accorgersi di nulla.
Paolo Marcacci 
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