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ORA D’ARIA “Riflessioni Sparse” Paolo Marcacci

Ora d'Aria di Paolo Marcacci

Questa settimana mi perdonerete, se metto da parte l’ironia e i paradossi. Perlomeno quelli umoristici. C’è stato poco da ridere, in questo fine settimana e mentre scrivo ancora non conosco i contenuti di quella che nel frattempo sarà stata la conferenza stampa indetta da Franco Baldini nel giorno del suo compleanno. Se ci riflettiamo con quel po’ di freddezza che abbiamo recuperato dopo l’indignazione, ci rendiamo conto che la cosa che brucia meno, di per sé è la sconfitta. Contro la Juve nel suo bellissimo “nido” torinese: ci poteva stare benissimo e infatti c’è stata, come peraltro suggerisce anche una tendenza statistica piuttosto impietosa.  Certo poi si potrebbe ragionare sul momento di forma che, Roma a parte, i bianconeri hanno evidenziato tra la trasferta soffertissima di Firenze e il miracoloso pareggio strappato ieri sera in Champions agli ucraini magistralmente diretti da Mircea Lucescu. Però non abbiamo tempo per queste sottigliezze, che tra l’altro renderebbero più catastrofico il bilancio della triste comparsata allo “Juventus Stadium”. Il fatto è che non ci era mai capitato di perdere questa partita, che per noi in un certo senso è anche una crociata calcistica, prima di giocarla. Neppure ai tempi di Mazzone, neppure quando arbitraggi nefasti e scandalosi si susseguivano in maniera seriale. Una squadra (si fa per dire) senza capo né coda si è consegnata da subito, nell’atteggiamento e nel disorientamento generale, di cui la sorpresa con cui Stekelenburg ha visto sfilare la punizioncina di Pirlo fin dentro l’angolino che stava coprendo è soltanto il sintomo più evidente.  Tre a zero, scritto con le lettere fa più effetto, dopo un terzo scarso di partita e sia pure contro la più forte del torneo è un qualcosa di estraneo al torneo stesso: non è Serie A quando un passivo matura così presto e con tale arrendevolezza e quando si determinano situazioni di (non) gioco come quella che ha portato alla segnatura del redivivo Matri, incredulo dell’occasione capitatagli. Ecco ciò che di più ha ferito una tifoseria, anche se poi ognuno parla per sé, che attendeva risposte, attesissime quantomeno in termini di agonismo: la mancanza di orgoglio, di amor proprio, di senso di appartenenza ad una causa che un popolo tifoso, passando per un allenatore offeso e continuamente messo in mezzo, sentiva come vitale. Al di là, lo ripetiamo, di una sconfitta magari messa anche in preventivo.  E’ bene precisare che il riferimento a Zeman in questo caso è soltanto simbolico e non tiene conto delle sue colpe specifiche, poche o tante a seconda delle opinioni. Ecco, la partita contro la Juve doveva servire proprio a riscoprire, attraverso il simbolo polemico per antonomasia, quelle doti e quegli atteggiamenti in nome dei quali noi, da sempre, passiamo sopra anche alle sconfitte. Magari sbagliando ma è il nostro pedigree. Invece no: peggio di sempre e con l’aggravante che nei giocatori, dopo, abbiamo visto imbarazzo e frustrazione ma non la sacrosanta, fisiologica rabbia che un tempo davamo per scontata. Veniamo allora all’episodio che almeno per me è stato il più avvilente, il maggior sintomo di assenza di qualsivoglia tensione agonistica: l’alterco tra Bonucci e Florenzi, dopo che la Juve aveva già segnato il terzo. Lo juventino che prende per il collo il giovane centrocampista giallorosso, tra l’altro sovrastandolo in virtù del suoi 190 centimetri contro i 172 del centrocampista giallorosso. Florenzi, anche abbastanza intimidito per l’occasione, che tenta di spiegarsi e nessuno, nessuno dei giocatori giallorossi che vada a redarguire Bonucci, a fare capannello attorno a lui, ad intimargli di non permettersi atteggiamenti del genere contro un loro compagno.  La spia di tutta una serata. La testimonianza di non sentire né la tensione della partita e neppure la storica, fondamentalmente mai sopita rivalità. Non si tratta di dover fare i “coatti” o i giustizieri,  il fatto è che certe reazioni dovrebbero venire naturali: almeno per mostrare le palle, scusate il termine, oltre ad una dose minima di  senso di appartenenza, non serve neanche Zeman.

Paolo Marcacci 
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