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REPUBBLICA.IT De Rossi e un calcio che non piace più

Daniele-De-Rossi

(E.Sisti) Forse la storia non è così come la dipingono o come la vogliamo leggere. Forse l’umore di Daniele De Rossi non è la cartina tornasole di un solo spogliatoio, o di un modulo mal digerito, e forse non è soltanto la conseguenza del rapporto col suo attuale tecnico di club, un rapporto che fra ritardi di preparazione e infortuni non s’è di fatto mai instaurato. L’unica traccia di un possibile legame fra i sentimenti del giocatore e la personalità dell’allenatore, nota a tutti, con i suoi tanti pregi e i suoi riconosciuti limiti (come tutti), risale a tre mesi fa: “Pensavo che Zeman fosse un musone, invece ho scoperto un uomo brillante, pieno di verve e umorismo”.

Anche se Daniele capisse, riparlasse coi suoi datori di lavoro, venisse reintegrato e non ceduto a gennaio come già si vocifera (le destinazioni possibili sono sempre quelle: Manchester City o, volendo esagerare con le fantasie di mercato, Real Madrid), la sua cristallina e scomoda posizione di persona non più gradita riflette il male del calcio italiano. Un luogo ormai angusto, una palude di stadi vuoti, di partite giocate sotto ritmo, di scommesse, malfattori, faccendieri, un posto senza fragole dal quale chi può, accampando la scusa più credibile, cerca di uscire. Sarà questa la verità? Forse sì. Nel suo angustiarsi, rinunciando quasi scientemente a ritrovare la forma perduta, forse anche Daniele De Rossi, uno dei punti fermi di Prandelli, avverte questa spinta. E’ diviso: da un lato l’onesto, esaltante amore per la sua squadra, per la “cosa giallorossa” in qualunque posizione di classifica si dibatta, da tifoso prima ancora che da calciatore e da professionista. Dall’altra il non meno condivisibile e onesto desiderio, alla soglia dei 30 anni, di liberarsi di tutte queste mani che toccano, della pressione insopportabile di un mondo che si sta squagliando fra il marcio dei suoi peccati, con le sue tavole d’affari grossolani e voraci che nessuno ha mai sparecchiato e che forse neppure sei milioni di euro l’anno, agli occhi di un ragazzo emotivamente stanco, rendono digeribile.

Non è la Roma, allora, non è soltanto il fatto che Daniele (è solo un esempio) potrebbe non gradire che Zeman gli chieda di giocare da esterno di centrocampo perché lì deve correre il doppio, come fa Florenzi. C’è dell’altro. E’ qualcosa di più. Qualcosa di più triste e di più grande. Sono le stesse motivazioni, più o meno dissimulate, che portano lontano i nostri tecnici, che poi ammettono: “In Italia non ci torno, non avrebbe senso”. Oppure come Zola preferiscono il Watford alla Lazio. Perché Balotelli dovrebbe tornare? Perché anche un “piccolo” come Pellè non regge più di qualche mese? Non è detto che traslocando Daniele trovi la felicità. Ma certo avrebbe un senso provarci. Soprattutto se finisci in un posto che la domenica esci dal tunnel e scopri che a questo mondo esistono ancora stadi come l’Etihad. Pieni.


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