M. Pinci – Il migliore attacco del campionato. E la peggior difesa. I numeri certificano una realtà consolidata dalla storia recente del campionato: a Trigoria si allena una Roma, all’Olimpico ne giocano due. Una, sorridente e radiosa, dalla metà campo in su. L’altra, incerta o forse addirittura mediocre, negli ultimi venti metri di campo. Ma la doppia identità non tiene la linea di galleggiamento in equilibrio. E tra i due volti è quello sofferente della retroguardia a vincere sull’entusiasmo degli attaccanti.
Due istantanee restano della notte di Roma-Udinese. L’azione del momentaneo 2-0, che trasformava l’Olimpico in uno scambio per l’alta velocità sull’asse Totti-Osvaldo-Lamela. E il gol del pari friulano con 4 tocchi consecutivi in area romanista: Di Natale-Willian-Armero-Di Natale. Troppo più suggestiva l’ultima della prima. Diciassette reti realizzate sul campo (e che diventano venti, come la Juventus, grazie allo 0-3 a tavolino di Cagliari), ma addirittura sedici subite. Non certo una novità per Zdenek Zeman, maestro di gioco d’attacco con il tallone d’Achille della tenuta difensiva. L’attacco produce occasioni in serie trascinato da Osvaldo e Lamela, dieci gol in due: un patrimonio arricchito da pochissime intrusioni altrui (2 Totti, 2 Florenzi, Marquinho, Lopez, Bradley). Ma che tradotto in profitto da classifica si riduce al contributo di 11 miseri punti, gli stessi di Catania e Cagliari. Vanificato, in larghissima parte, dalla tenuta del pacchetto arretrato. Stravince dunque il peso di una difesa non all’altezza, rispetto alla produttività di un attacco super. E proprio l’occasione del pareggio di Di Natale certifica l’inadeguatezza del reparto arretrato. Perché, è vero, spesso le sbilanciatissime squadre di Zeman espongono i difensori all’inferiorità numerica. Ma il flipper prolungato in area di rigore che Marquinhos e Piris, Dodò e Castan si sono limitati a osservare come spettatori non paganti è responsabilità che neanche il più feroce contestatore del boemo può ascrivere alle sue trame di gioco.
Piris, Marquinhos, Castan, Dodò, Balzaretti: i nomi nuovi del reparto arretrato rivoluzionato in estate. Un mercato di settore costato – solo per i cinque nuovi difensori – circa 13 milioni e mezzo. Non pochissimo in senso assoluto, troppo poco forse rispetto alle esigenze di una squadra che aveva ceduto in un colpo solo Juan, Heinze, Kjaer, José Angel, Rosi, Cassetti, Cicinho, salvando rispetto alla scorsa stagione il solo Burdisso.
Poco, soprattutto, se si pensa che 16 milioni verranno investiti, tra prestito e riscatto, per il cartellino di Mattia Destro, talento purissimo del calcio italiano, ma sin qui inutilizzato o quasi: 375 minuti divisi in sei gare, soltanto tre giocate per intero. E soprattutto ancora all’asciutto di gol. La testimonianza formale che l’investimento – senza dubbio intelligente per valori assoluti – poco si concilia con l’idea di calcio che ha in testa Zdenek Zeman. Discorso simile vale per Pjanic: un talento limpidissimo, ma che con il boemo fatica a trovare la giusta posizione in campo. E sul quale lo stesso tecnico sembra avere idee confuse, passando dall’idea che “vicino a Totti rende poco perché manca di qualità difensive”, salvo poi schierarlo a pochissimi passi di distanza dal capitano, con cui inevitabilmente ha finito per pestarsi i piedi in più di un’occasione. E allora, rifiutare i 25 milioni offerti in estate dal Tottenham sembra quasi uno schiaffo alle urgenze di una squadra che dietro continua a soffrire. Soprattutto a causa di una spiccata fragilità dei singoli.