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CORRIERE DELLO SPORT Quel vuoto societario

James Pallotta

(A. Maglie) – Più che un caso, la Roma è una speranza delusa, è un po’ come i giovani che manda in campo: sulla carta padroni del futuro, sul terreno di gioco incapaci di afferrare il presente. E’ evidente che in mondi come quello del calcio e della comunicazione (sotto molti aspetti facce della stessa medaglia, verità pienamente e tempestivamente compresa da Berlusconi e dal Milan negli anni Ottanta) la pratica più diffusa è quella dell’individuazione del colpevole. Semplice, quasi indolore (colpevole escluso), rapida (se ne chiude una e si passa a un’altra). La Roma nel calcio italiano ha un ruolo decisivo e i suoi affanni non possono essere risolti con l’elezione di un capro espiatorio, per quanto robusto e autorevole possa essere. La Roma è il cuore di una tifoseria, di un popolo, è un battito che si alimenta di passione e se la passione si spegne cessa conseguentemente il battito. Zeman ha molti difetti ma li aveva già prima di essere ingaggiato. Considerarlo come il responsabile principale di tutto quello che è avvenuto dalla caduta dell’Impero Romano di Occidente ad oggi è eccessivo. Eccessivo ma inevitabile conseguenza di quel senso di smarrimento prodotto da una “rivoluzione calcisticamente epocale” rimasta più che sulla carta, nelle intenzioni.

Il guaio è che anche le intenzioni appaiono confuse perché i portatori di quelle intenzioni non sono facilmente identificabili. La Roma è un coro a tante voci, un’ampia comitiva di personaggi in cerca di un autore così sfuggente da apparire simile all’Uomo Ombra. Perché, al di là delle sconfitte, delle rimonte clamorose, dei punti buttati alle ortiche con una generosità degna di miglior causa, un interrogativo resta irrisolto: chi rappresenta la Roma? Chi ne interpreta gli affanni? Chi è responsabile delle scelte, giuste o sbagliate che siano? Dal giorno della “svolta” (l’uscita di scena dei Sensi) i tifosi hanno assistito all’ingaggio di Luis Enrique e Zeman, all’avvicendamento di due presidenti e di un paio di amministratori delegati, alla sostanziale sovrapposizione tra la figura del direttore generale e quella del direttore sportivo. Un labirinto di cariche e di incarichi in cui faticherebbe a orientarsi persino Arianna pur armata di filo. La Roma ha deciso di uscire dalle vecchie logiche delle società padronali, quelle “dell’uomo solo al comando”. Rischia, però, di affondare in un assemblearismo di tipo tardosessantottino: decidono tutti, cioè nessuno.

Nei tifosi alla delusione si aggiunge lo smarrimento: difficile identificare la Roma in un volto, in un nome, in una persona, in qualcuno capace di indicare, in un momento difficile come questo, la linea da seguire per uscire dal pantano, per ritrovare la strada maestra. Una situazione un po’ paradossale: molti ruoli ma non una linea di comando e in una situazione simile le contraddizioni sono inevitabili, gli errori conseguenti, la delusione l’approdo finale. Prima ancora di stabilire se Zeman è in grado o meno di uscire dalla crisi, la società dovrebbe rendersi identificabile, in maniera univoca. E in maniera univoca dovrebbe far capire a tutti se su Marte c’è ancora vita.


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