(M. Macedonio) – «Il derby? Per me, è sempre stato importante vincerlo sul campo, ma anche sugli spalti. Anche se oggi, con tutte le limitazioni e le preclusioni che ci vengono imposte, non è più possibile, purtroppo, veder ripetere quelle coreografie che hanno fatto davvero la storia del tifo, romanista e non solo».Non ha dubbi, Vittorio Trenta, altro tifoso storico insieme ad Antonio Bongi e Guido Zappavigna (intervistati nei giorni scorsi): anche per lui, come per tutti quelli che, poco più che ragazzini, hanno vissuto la curva Sud a partire dai primi anni Settanta, la sfida con i “cugini” non può non avere quella valenza. «Poterli battere su tutti e due i piani era fondamentale. E non c’era una via di mezzo. Cominciamo col dire che quegli spettacoli li ha inventati Fausto Josa, insieme ovviamea tutti noi. Con il tempo ci sono poi stati tanti tentativi di imitazione e anche i laziali, dovendo a loro volta crescere dopo tante “bastonate” prese a livello coreografico, sono riusciti a fare qualcosa di più, non potendo rimanere sempre indietro». […]
«Il primo derby che ricordo fu quello in cui vennero cacciati i laziali. Fino ad allora, infatti, i tifosi delle due squadre si mischiavano un po’ in tutti i settori. Anche in curva. Quel giorno mio padre mi portò dove c’erano parecchi laziali, in Sud ma dalla parte opposta a dov’era Dante, e fu così che mi trovai in mezzo nel momento del parapiglia: ero piccolo e non capivo cosa stesse succedendo. L’ho capito dopo. Perché fu da allora che i laziali non misero più piede in curva».
Vincere sul campo e sugli spalti. Un impegno che prendeva tutti i giorni precedenti. «Un lavoro certosino – dice Vittorio. – Quasi più importante della partita stessa. Con un’organizzazione ferrea. Si lavorava come in una catena di montaggio, e a compartimenti stagni. Proprio per non far sapere niente agli avversari. Ma anche chi ci lavorava non sapeva cosa facesse l’altro. E tutto veniva messo insieme all’ultimo momento. Eravamo peraltro avvantaggiati, perché non esistevano telefonini, e il telefono di casa non era sufficiente per capire cosa facessero gli altri. Tra l’altro, la cura degli striscioni era affidata solo a gente fidatissima, per non dare alcun vantaggio agli avversari. Una coreografia in particolare? Quella del “Marozofra” (nel 1975, ndr), in cui Josa fu davvero geniale. Volevamo fare uno spettacolo pirotecnico e Fausto andò da uno, in Ciociara, che era esperto di quel genere. Essendo però laziale, non gli disse quale scritta volesse comporre. E allora, anagrammando “Forza Roma”, gli fece credere che sarebbe servita per la festa di un paese, dalle parti di Civitavecchia, il cui nome era, appunto, Marozofra. Quello, pur tra qualche perplessità, non avendo mai sentito nominare quel paese, preparò comunque le lettere per la scritta. Quando poi arrivò la domenica, gli venne detto che avrebbe dovuto accenderla lui, la miccia, e solo quando si ritrovò allo stadio Olimpico capì che l’avevano fregato. Ma avendo già preso i soldi, non poté rifiutarsi. Fu uno spettacolo bellissimo, in una giornata grigia, vedere la scritta accendersi all’unisono».
Altre scritte efficaci? «Mi viene in mente quella del “Ciao, ‘nvidiosi”, che avevamo mutuato da Gigi Proietti. Era la frase del momento, con quel tono sarcastico che ci metteva lui. E quando i tifosi laziali presero a fare i propri cori, non servì rispondergli con altri cori. Bastò far uscire quella scritta per zittirli tutti». Spettacoli che nascevano dal contributo di tutti, sia pure con i mezzi e le possibilità che si avevano allora. «Raccoglievamo i soldi allo stadio attraverso dei bussolotti, in cui – tra 500 e 1000 lire – si poteva arrivare a mettere insieme anche uno o due milioni. Era una cifra non da poco, ma sapevamo di poter contare sulla massima fiducia nei confronti di chi si occupava di gestirla. Basti dire che quando veniva chiuso, sul bussolotto, un tubo molto grande, venivano messe le firme di almeno 6 o 8 persone. Che dovevano essere tutte presenti al momento dell’apertura. Per fugare qualsiasi dubbio ed eliminare qualsiasi pericolo. Perché un conto era prendere quella cifra da soli e un conto dividerla in otto. E chi ne avesse trafugata anche solo una parte sarebbe stato facilmente smascherabile».[…]
Momenti da non dimenticare, quelli vissuti sugli spalti. E in campo? «Sarà perché ero giovane, ma se c’è un derby al quale sono legato è quello vinto per 2-1 con il gol di Giovannelli. Ha un valore affettivo, che me lo fa rimanere nel cuore anche a distanza di tanti anni. Quanto al derby di domenica prossima, lo sento particolarmente, e credo che anche la tifoseria lo stia vivendo con una tensione e una partecipazione maggiori di altri anni. Determinata forse dal fatto che, se dovessimo vincere, la squadra acquisterebbe finalmente la consapevolezza di poter ambire a traguardi importanti. Al di là del sorpasso in classifica, che è una cosa che fa sempre comunque piacere. Credo che se l’allenatore verrà seguito, e lo dice uno che non è zemaniano, sono certo che si potrà guardare avanti con fiducia. […]».