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LA REPUBBLICA La Roma vince, ma Zeman perde il suo gioco

Zeman Bergodi

(E. Sisti) – Il ritorno di Zeman a Pescara è stata una festa. Ma solo prima della partita. Anche chi vince, come ieri la Roma, può lasciare impressa nella retina l’immagine di un calcio triste e involuto, avvelenato dall’indisciplina, condizionato dalla povertà di mezzi in cui Roma e Pescara, non potendo far altro, si sono prontamente riconosciute, ognuna secondo la propria storia e le proprie finanze. La Roma di Zeman, forse la squadra meno zemaniana del campionato, ha superato il Pescara con un gol in apertura di Destro (che al 5’ ha raccolto la cattiva respinta di Perin su una punizione di Totti) dominando senza ferire e senza mai provare a stupire, nemmeno una volta, nemmeno per sbaglio, nel tedioso volgere di una partita devastata dalle sbavature e giocata a un ritmo che ben fotografa lo stato del calcio italiano.

Zeman si difende: «Ma le squadre sono squadre di Zeman solo quando perdono? ». Ha ragione da vendere. Ma anche lui, benedett’uomo, non è più lui, nei pregi e nei difetti. Oppure gli attuali suoi ragazzi, al contrario di Insigne, Immobile, Sansovini e Verratti lo scorso anno, non capiscono le sue parole, lo interpretano male, lo soffrono, faticano: «Se non riesci a fare quello che vorresti, devi adattarti». È Zeman che parla o Mazzone? Quando si accorge che negli ultimi dieci minuti la sua ex squadra sta assaltando come può (ossia con l’appesantito Abbruscato) il fortino giallorosso, Zeman si converte alla religione del capitalistico profitto, in cui è forse lui il primo a non credere, e cambia Osvaldo con Tachtsidis dopo aver già messo Perrotta al posto di Destro. Qualcosa è cambiato se Zeman si “abbassa” a una doppia sostituzione tattica. Negli anni scorsi gli si rimproverava l’integralismo, oggi si può e forse si deve discutere di come Zemanlandia non esista quasi più.

Saggio e brutto: dove può arrivare il nuovo Zeman? La logica dei numeri dice che per la prima volta in campionato la Roma non subisce gol in due partite consecutive incamerando sei punti di fila e restando in corsa per quel leggendario terzo posto di cui si favoleggia dal ritiro di Brunico, come fosse il Valhalla. Ma è assai magro bottino psicologico e letterario, soprattutto alla luce delle condizioni psico-fisiche dei giallorossi. I fatti sono palesemente contraddittori. Contro Torino e Pescara la Roma è stata coerente: ha farfugliato in egual misura, è costantemente inciampata sull’aria, ha rigorosamente dimenticato se stessa sino al punto da far dubitare che esista un “se stessa” cui fare riferimento (salvo i 20 minuti iniziali contro l’Udinese). Eppure ha vinto. Segno che gli altri hanno fatto peggio.

Di fronte al Pescara da strapaese appena rilevato da Bergodi, pieno di generosa manovalanza cui nulla si può chiedere, a parte l’ottimo Weiss, la Roma doveva essere 3-0 dopo dieci minuti e giocare sull’eleganza e sull’intesa. Non l’ha mai fatto. Destro, che ha giocato al posto dell’infortunato Lamela, avrebbe potuto raddoppiare nel secondo tempo. Totti, che non ha mai segnato al Pescara, ha provato più volte da fuori con tiri irascibili. Ma sono solo microscopiche scintille nel buio di una cronaca senza bellezza.

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