Ancora sul derby, che se non fossimo masochisti non saremmo della Roma e negli anni si impara che quando si appartiene a questi colori si cominciano ad amare anche le contrarietà, alcune delle quali sembra che il dio del pallone le faccia piovere solo su di noi; deve aver compreso che solo noi siamo in grado di soffrire così e ancor di più di contrapporre a queste sofferenze l’amore per questi colori, che non sbiadiscono mai, per chi se li porta dentro da sempre. E’ da domenica pomeriggio che parliamo di colpe, che ci schieriamo con o soprattutto contro quel (non)protagonista piuttosto che con o contro quell’altro: cartellini rosso-follia, facce imperturbabili quale che sia il goal, guanti insaponati, assist tragicamente involontari, alibi meteorologici…Ce n’è stato e ce n’è per tutti i gusti. Io, sperando di non essere stucchevole, torno su Zeman; non per difendere il Verbo, anche se resto nella schiera di chi lo sostiene, ma per riguardare, giuro che è l’ultima volta, gli episodi. Roma in vantaggio, manovra che sembra scivolare, almeno per il primo quarto d’ora, con una certa piacevolezza sul terreno già allagato. Poi è tutto spezzettato, dai tuoni più che dai fischi di Rocchi: punizione di Candreva che puoi respingere di testa, Klose che ha tempo di ordinare un caffè prima di fare 2-1 dal tavolino riservato al centro dell’area, inferiorità prima emotiva e poi numerica, infine /Piris tra le tue poesie, c’è un assist per Mauri che parla di teeee…/. Sono queste segnature che scaturiscono dalle carenze del modulo zemaniano e dal modo di intendere il quattro-tre-tre? O sono episodi scollegati da qualsiasi spartito che costano il terzo derby di fila, cosa che non capitava da un’era geologica? Poi, certo, possiamo ragionare sulle decisioni prese o non prese in corsa, sulle sfumature, tutto quello che volete; ma lancio una microscopica provocazione: se a perdere in questa maniera fossero stati Pioli, Guidolin o Delio Rossi staremmo qui a parlare di schemi suicidi e santoni bolliti? Io scommetto sul no: con tecnici più “normali” o istituzionali che dir si voglia, si sarebbero automaticamente chiamate in causa l’estemporaneità degli episodi e la maledizione del caso che ha condannato la Roma. Detto questo, Zeman non può che essere coinvolto in un processo che investe la Roma dai vertici (plurale non casuale) fino ai raccattapalle, ci mancherebbe. A mio giudizio una colpa, che possiamo definire grave pure nello slancio che l’ha ispirata, Zeman l’ha avuta all’inizio, anzi prima che tutto iniziasse, in un certo senso: l’ha avuta quando la sua voglia di Roma e di un’ultima chance di prestigio gli ha fatto accettare a scatola chiusa una rosa dalla fisionomia incerta e una campagna acquisti non del tutto conforme alle sue imprescindibili esigenze. Di domenica in domenica, questo stato di cose presenta il conto, con rare eccezioni che ogni volta ci hanno fatto gridare alla svolta, mai verificatasi. “Io voglio bene alla Roma” ci tenne a sottolineare durante la sua prima conferenza dopo il ritorno. In quelle parole c’era la sua adesione, a prescindere, ad un “progetto” che continua a richiedere tutte le virgolette del mondo.