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REPUBBLICA.IT La colpa non è di De Rossi

De Rossi

(A. Vocalelli) – La Lazio ha vinto il derby con il gioco, la tranquillità e con i suoi campioni, perché solo un grande centravanti come Klose può avere la freddezza di stoppare il pallone a cinque metri dalla porta per poi sistemarlo con l’altro piede in diagonale. La Roma, invece, ha perso un derby che è la fotografia di tutti i suoi errori, delle sue contraddizioni, delle sue strategie sbagliate. Qualcuno, superficialmente, darà tutta la colpa a De Rossi, che sicuramente ha responsabilità chiare e pesanti, ma non può essere l’unico responsabile. Anche perché il suo comportamento, assolutamente censurabile, è anche il risultato di una pressione a cui è stato – clamorosamente – sottoposto dall’interno. Pensate voi se un osservatore o la critica avesse detto di De Rossi ciò che ha detto la stessa Roma, accusandolo di scarso impegno e scarso attaccamento alla causa: sarebbero partite le querele e, come minimo, ci avrebbero ricordato che la Roma è una società quotata in Borsa, dunque soggetta a certe turbative…

Invece su De Rossi si è abbattuto un ciclone interno. Lui, come detto, ha sicuramente commesso un errore imperdonabile, ma non è l’unico padre della sconfitta e di questo disastroso avvio della Roma. Di una squadra che è andata ancora in campo con troppi ventenni – e non a caso hanno sbagliato nell’ordine Goigoechea, Marquinos e Piris – ma anche di una squadra che è stata costruita con alcune evidenti lacune, che sin dall’estate avevamo denunciato.

Nella Roma ci sono ruoli scoperti o affidati a giovanissimi e nel frattempo finisce per andare regolarmente in panchina (per una concorrenza affollata) l’investimento maggiore dell’estate, cioè Destro, che solo perché squalificato si è risparmiato altri novanta minuti a bordo campo. A centrocampo c’è la necessità, per sostenere il trio d’attacco, di dare spazio a onestissimi gregari e nel frattempo resta fuori uno come Pijanic, che ha già conosciuto la Champions League. E De Rossi stesso, che nell’occasione (lo ripetiamo a scanso di equivoci) ha sbagliato, è stato messo in alternativa per tre mesi con un ragazzo giunto dalla serie B, per poi essere restituito al ruolo di play maker proprio nella circostanza per lui emozionalmente più difficile. Come dire: adesso, alla soglia dei trent’anni e con un’infinità  di partite anche in nazionale, facci vedere chi sei! Vi sembra normale tutto questo?

Insomma è il caso che nella Roma, al di là delle belle frasi e dei richiami agli altri e non rendere tossico l’ambiente (?), tutti comincino a fare un serio e severo esame di coscienza. La Roma è una società senza padroni, o meglio con i padroni che assistono al derby dall’altra parte dell’oceano, dirigenti che dopo aver cercato di stupire con Luis Enrique sono adesso lì a interrogarsi su un’altra campagna discutibile, con  un allenatore che continua a regalare tre gol e dieci occasioni ad ogni avversario, con una squadra che sembra francamente composta (almeno oggi) da giocatori sopravvalutati. Ma qualcuno prima o poi si accorgerà di tutto questo? E qualcuno, per una volta, ammetterà i suoj errori? Sarebbe il primo passo per provare a ripartire.


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