(S. Bocchio) – Quando Francesco Totti debutta in serie A, l’Italia è in un’altra epoca. Il 28 marzo 1993 il presidente del Consiglio è Giuliano Amato, sostenuto da un’alleanza che prevede la partecipazione di Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito liberale e Partito socialdemocratico.
Nomi che evocano nostalgia negli orfani della Prima repubblica e che danno il senso dell’unicità del capitano della Roma. Sempre e solo giallorosso, l’unica bandiera rimasta a sventolare dopo l’addio di Paolo Maldini.
Certo, ci sarebbe anche Daniele De Rossi, “capitan futuro” come lo chiama con meno convinzione chi ha dedicato la propria vita ad avere fede nella squadra. Ma il centrocampista azzurro è lì, sospeso. Deve ancora capire che cosa voglia Zdenek Zeman, quello che invece ha capito benissimo Totti.
Lo davano finito con il calcio “tiki-taka” di Luis Enrique, è stato uno dei pochi a salvarsi da una stagione devastante, che ha azzerato il tentativo di trasportare il modello Barcellona in Italia. Si scambiavano colpetti di gomito e risolini quando lo immaginavano in estate alle prese con i gradoni del boemo: lui gioca sempre, gli altri si alternano. Insostituibile, con un privilegio raro per chi conosce Zeman.
Nessun inserimento rigido nel 4-3-3, ma possibilità di svariare, per riproporre a 36 anni il suo talento e per prendere per mano una squadra che, contro la Fiorentina, ha dimostrato di essere quella spettacolare e vincente che ci si aspettava da chi siede in panchina.
Quattro gol: due sono suoi e due sono assist, per lasciarsi alle spalle il monumentoGiuseppe Meazza, salire al terzo posto e ritrovarsi a meno quattro da Gunnar Nordahl, entrato nella storia della serie A come uno degli attaccanti più implacabili. Sono 225 reti contro 221, impresa possibile. Sarà più complicato raggiungere Silvio Piola, primo assoluto a 274.
Ma Totti ha un contratto fino al 2014, controfirmato da Rosella Sensi, allora criticata per questa scelta.