(Repubblica.it – A.Vocalelli) Il caso Roma è quanto di più singolare e curioso possa avvenire in questo particolare momento del calcio. Da due stagioni a questa parte c’è stata una sola società, appunto la Roma, che al di là della crisi è riuscita a fare investimenti. Fatica a farne addirittura la Juve, che a gennaio si è limitata al prestito di Anelka. Non ne ha fatti il Napoli, che anzi ha capitalizzato la cessione di Lavezzi. Non li ha fatti la Lazio, che è rimasta praticamente immobile. Non li ha fatti l’Inter che anzi ha dimesso i suoi pezzi pregiati – da Julio Cesar e Maicon e Sneijder – pur di risparmiare sugli ingaggi. Non li ha fatti il Milan, che ha visto partire Thiago Silva, Ibra, Pato, uno dopo l’altro, e ora si batte per avere Balotelli, solo però se sarà possibile pagarlo in cinque o sei rate. La Roma, no. La Roma ha speso sul mercato, tra investimenti e ricavi dalle cessioni, un centinaio di milioni di euro, per continuare a galleggiare a metà classifica.
Da qui bisogna partire per chiedersi perché. Perché le cose non vanno. Non c’è dubbio che Zeman abbia sbagliato molto. Un atteggiamento tattico sempre troppo rischioso, un difficile rapporto con la squadra, alcune scelte indifendibili: come si può, con tutto il rispetto, mettere De Rossi in concorrenza con Tachsidis? E come si può emarginare Stekelenburg, che non sarà un fenomeno e pure ha commesso vari errori, con un ragazzo ancora da costruire sugli appoggi elementari? Sì, Zeman ha sbagliato ed è dunque normale che finisca sotto esame, sotto processo. Perché pur essendo ed essendo stato un personaggio fondamentale per l’etica di questo sport, non si possono confondere i livelli di discussione. E se Zeman ha sbagliato, come ha sbagliato, è giusto che venga criticato.
C’è un però in tutto questo. E nasce dalla strana, inaccettabile, situazione della Roma: un’azienda senza padroni, o comunque con i proprietari lontani – per chilometri e cultura – dal cuore del loro business. Il paradosso della Roma è che a decidere sulle scelte da prendere sono gli stessi che, al pari di Zeman, sono dipendenti e dovrebbero essere a loro volte giudicati per le scelte. Per essere magari assolti, confermati, rincuorati: ma comunque giudicati. Anche per questo, perché mettere in discussione la scelta Zeman sarebbe stato come mettere in discussione se stessi, la Roma ha aspettato troppo, in un mondo e in un’epoca che non ti aspetta.
Una volta bastava non fare nulla, sperando che la soluzione arrivasse spontaneamente. Oggi, no. Non decidere vuol dire essere superati dagli eventi. Il vero problema alla Roma è cominciato il 7 ottobre, alla settima giornata, all’alba della stagione. Quando la rivoluzione di Zeman non è stata minimamente discussa dai dirigenti, per chiedersi se fosse stata giusta o meno. Sarà un caso ma da quel giorno, a seguire – con l’insubordinazione di Pijanic, Marquinho, Stekelenburg, per fare i nomi più eclatanti e visibili – ne sono successe di tutti i colori. Quel giorno, quel 7 ottobre, Zeman avrà fatto bene o avrà sbagliato – ognuno può decidere – a escludere Osvaldo, De Rossi e Burdisso. Ma la domanda è semplice. Se Conte avesse escluso in un colpo solo Vucinic, Pirlo e Barzagli o Mazzarri avesse fatto fuori Cavani, Hamsik e Cannavaro, Agnelli o De Laurentiis si sarebbero preoccupati di capire cosa stesse succedendo per evitare che la situazione potesse precipitare? O dall’America, se magari fossero stati lì in vacanza, non si sarebbero precipitati in Italia per capire cosa stesse succedendo alle loro squadre e alle loro Aziende? Tanto più se in quelle Aziende qualcuno avesse messo 100 milioni di euro. Boh.