(M.Macedonio) – Era il 19 gennaio del ’91 quando il presidente Dino Viola si arrendeva alla malattia, lasciando la presidenza della Roma alla moglie Flora, con accanto a sé i figli Ettore e Riccardo.
«Quasi non sembra che siano passati ventidue anni – confessa oggi il più piccolo dei due, Ettore, avvocato e imprenditore. – Perché, come per tutte le persone che lasciano un segno, il ricordo è sempre straordinariamente vivo».
Un legame, quello tra Dino Viola e la Roma, che aveva origini lontane.
«Arrivò a Roma che aveva undici anni. E il suo primo contatto con Testaccio gli cambiò la vita. Da giovanissimo giocò anche nella Roma e, a livello universitario, ebbe modo di conoscere tanti giocatori di allora, da Fulvio Bernardini a Silvio Piola, cimentandosi a più riprese nel calcio. Anche se aveva poi preso un’altra strada, laureandosi in ingegneria, e avendo conseguito entrambi i diplomi di maturità, sia classica che scientifica».
Un rapporto, quello con i tifosi, di cui suo padre andava particolarmente fiero. Anche se gli inizi non furono facili.
«Penso a quelli più animosi, o meglio, più tifosi. Mio padre li conosceva personalmente, uno per uno. Ha sempre instaurato un rapporto diretto con loro. Si vantava di essere il primo tifoso della Roma e proprio per questo, rivendicava il suo diritto a fare delle scelte nell’interesse della Roma, Non ammettendo che nessuno potesse metter in discussione questo suo sentimento. Penso che per questo suo essere sempre stato diretto, e nello stesso tempo coraggioso, si sia conquistato il rispetto, la stima e la fiducia dei tifosi, anche quando ha avuto delle contestazioni, che fanno comunque parte della vita. E quanti ne ha salvati, facendosi spesso garante lui stesso, quando qualcuno di loro veniva arrestato. Li riportava a Roma personalmente».
Oltre al sentimento, credo che rivendicasse la propria competenza, e non solo perché da giovane aveva praticato calcio.
«Mio padre aveva studiato da presidente. Facendo il vicepresidente con Evangelisti, Marchini e Anzalone. Posso dire che ha improntato tutta la sua vita di imprenditore ad un unico obiettivo: quello di fare il presidente della Roma. E’ stato il primo a lanciare, o se vogliamo, rilanciare l’immagine della Roma, che per anni, classifiche alla mano, è stata tra le prime squadre in Europa»
Quella Roma aveva un carattere così forte e determinato che veniva trasmesso al gruppo proprio da suo padre.
«Che fu a sua volta un padre per quei ragazzi. Non solo il datore di lavoro e presidente, quindi, ma anche colui che li assisteva quotidianamente. Essendo vicino perfino alle famiglie, suggerendo, quando servisse, addirittura medici o investimenti. Al di là dell’essere un uomo carismatico, era soprattutto un uomo presente».
Anche se non amava dire di essere un presidente a tempo pieno, perché, da persona pragmatica e concreta qual era, preferiva lavorare magari quattro ore, ma bene, piuttosto che otto perdendosi in chiacchiere.
«Mi piace ricordare che mio padre ha sempre messo soldi nella società e non ha mai portato via un euro dalle casse della Roma. L’unico lusso che si concedette, fu giusto nell’ultimo anno: convocò Umberto Esposito (figura storica, essendosi occupato per anni della gestione amministrativa della società, ndr) e gli chiese se potesse prendere una macchina in leasing, intestando i ratei alla Roma. Esposito ovviamente lo tranquillizzò: “Si figuri, gli disse, la macchina la usa sempre lei per seguire la squadra nelle trasferte. Mi sembra una cosa assolutamente legittima”. Un lusso che durò molto poco, perché pochi mesi mio padre dopo morì. Il rammarico che ho è che provai a riscattarla quando la società fu ceduta a Giuseppe Ciarrapico, ma non mi fu concesso di farlo. E sfido chiunque a trovarmi qualcuno che abbia fatto buoni affari con Ciarrapico».
Un ricordo dell’ultimo periodo di vita di suo padre?
«Gli rimproveravano, in tanti, di essere un presidente vecchio, anche se aveva solo 73 anni. Fu allora che, una domenica mattina, mi convocò in garage, dove c’erano due biciclette. Le prendemmo e da via Porro, ai Parioli, dove abitavamo, arrivammo fino sulla bretella di Fiumicino, dove peraltro non è consentito andare in bici. Ci fermò infatti la polizia. Che riconoscendo mio padre, ci scortò fino a Fiumicino. Era il suo modo per dimostrare di non essere vecchio. “Vi faccio vedere io” ripeteva. E mai avrei pensato di uscire con lui in bici, senza alcun tipo di preparazione. Ma la sua tempra, quel giorno più che mai, fu più forte di tutto». (…)