La squadra di calcio della Roma ha esonerato il suo allenatoreZdenek Zeman. “Esonerato” è molto diverso da “licenziato”. In Italia gli allenatori non si possono licenziare, a meno di volersi infilare in mille scomode beghe legali, quindi si “esonerano”. Vuol dire che Zeman rimane a tutti gli effetti un dipendente della Roma, pagato regolarmente ogni mese fino alla scadenza del suo contratto, giugno 2014, pur non lavorando. La Roma non “esonerava” un allenatore da sedici stagioni, dal 1997: da allora gli allenatori della Roma sono sempre andati via alla scadenza del loro contratto o, a fronte di risultati non soddisfacenti, in conseguenza delle proprie dimissioni. Salvo Cesare Prandelli, che lasciò la Roma nel 2004 per via della malattia della moglie, è quello che in questi anni hanno fatto Rudi Vueller, Gigi Delneri, Luciano Spalletti, Claudio Ranieri e Luis Enrique.
La decisione della Roma è stata presa dopo la disastrosa sconfitta di ieri contro il Cagliari, ultima di una lunga serie. Già la settimana scorsa i dirigenti della Roma avevano detto di star valutando la possibilità di sollevare Zeman dall’incarico, poi dopo un paio di riunioni ci hanno ripensato e Zeman aveva detto di voler restare a Roma “altri cinque anni”.La partita di ieri, probabilmente, è anche la risposta dei calciatori relativamente a questa ipotesi. Discutere di quanto è accaduto in questi sei mesi alla Roma è interessante, per chi oltre a essere un tifoso è anche un appassionato di calcio (le due cose non coincidono necessariamente): c’è una squadra che si sta ricostruendo quasi da zero, complice una nuova proprietà, che insegue un’idea di calcio spettacolare e divertente e che da due anni ingaggia per questo allenatori spregiudicati, “seducenti” e carismatici, fallendo ogni volta. Una gran storia, che potrebbe dire molto dello stato dell’arte del calcio, e forse di più ampie relazioni in questo paese tra l’innovazione, i risultati e il consenso. Il problema è anche che in Italia, dove si parla moltissimo di calcio ma raramente si cerca di capirlo, Zdenek Zeman è uno di quegli argomenti di cui non si può discutere.
Tutti sanno già tutto su Zdenek Zeman: ognuno ha già una sua opinione, solida e radicale, come accade coi personaggi più polarizzanti, e non è disposto a cambiarla praticamente in nessun caso. Esatto, come con Berlusconi. Nessuno cambia idea su Berlusconi: se ti piace ti piace, se non ti piace non ti piace, nonostante qualsiasi argomento l’interlocutore possa tirar fuori. È singolare che con Zeman le cose si somiglino. Nessuno cambia idea su Zeman, attorno al quale girano due culti opposti. Gli zemaniani, in molti dei quali le difficoltà di questi giorni hanno aggravato i toni da missione religiosa, citano un elenco lungo così di persone, cose e macchinazioni che avrebbero più responsabilità di Zeman nel disastro della Roma di questa stagione: la colpa è di qualcun altro, punto. Gli antizemaniani si danno di gomito più o meno ogni domenica da sei mesi e oggi hanno l’occasione di dire, semplicemente, che avevano ragione, fregandosi le mani. In un paese in cui poche persone cambiano idea su quasi qualsiasi argomento – tema enorme, e anche questo va molto oltre il calcio – su Zeman tutti hanno già deciso cosa pensare. Eppure questi sei mesi sono stati un fatto nuovo.
Dal punto di vista tecnico a Roma non si è visto quasi niente di quello che Zeman normalmente porta nelle squadre che allena: niente gioco spettacolare, niente velocità, niente prestanza fisica, niente valanghe di gol, a parte quelli subiti. Qualcosa non ha funzionato, da subito. Le cose peggiori però Zeman le ha mostrate dal punto di vista umano. Si dice spesso di José Mourinho – e dei grandi allenatori in generale – che è bravo anche perché riesce a catalizzare su di sé le responsabilità e le attenzioni, alleggerendo quelle dei calciatori. Zeman ha sempre fatto l’esatto contrario. A sentirlo, le colpe quest’anno sono state sempre degli errori degli arbitri, della mancanza di concentrazione dei calciatori, della mancanza di disciplina, addirittura della pioggia e dell’influenza. Zeman è arrivato ad accusare in conferenza stampa, chiamandoli per nome e di fatto isolandoli, i calciatori secondo lui preoccupati solo “dai propri interessi personali” o non in grado di capire il suo gioco. Oppure di lamentarsi della mancanza di “regole scritte”, nella stessa squadra che un anno fa tenne un giocatore in panchina per un ritardo di pochi minuti o per aver litigato con un compagno. Mai nel corso di questa stagione Zeman si è assunto un pezzetto di responsabilità relativamente ai risultati deludenti della Roma: che è una cosa che i leader fanno, se vogliono essere trattati come tali.
Anticipiamo un po’ di risposte ad alcune popolari domande retoriche: no, esonerare Zeman non risolve di per sé i problemi della Roma; no, i giocatori non vinceranno tutte le partite da adesso in poi; sì, la società ha grandi responsabilità nella costruzione di questa squadra imperfetta (nonché nella stessa scelta di Zeman); sì, qualcun altro dovrebbe andar via, oltre Zeman. L’esonero di Zeman non serve a salvare una stagione che per la Roma ormai è buttata. Serve a evitare altri danni: come quelli fatti a Daniele De Rossi, Marteen Stekelemburg e Nicolás Burdisso, calciatori di livello internazionale tritati da sei mesi assurdi, accusati persino di essere pigri e non aver voglia di allenarsi. Per la Roma l’esonero di Zeman è una tappa di questo faticoso percorso di ricostruzione di una squadra da zero, una cosa che richiede tempo: la Juventus, che era la Juventus, dopo la retrocessione in B ci ha messo sei anni. Per molti tifosi potrebbe essere l’occasione per un gesto inedito: imparare a cambiare idea, ogni tanto. Maturare un atteggiamento un po’ più laico, un po’ più dubbioso, un po’ più critico: pensare di più non vuol dire tifare di meno. Lasciare perdere le missioni religiose e i complotti, ridimensionare i santoni e convincersi che persino Lui, persino Zeman, ogni tanto, può sbagliare.
Fonte: IlPost.it