(L. Valdiserri) – Zeman ha accettato una squadra non «sua» per la voglia di prendersi una rivincita contro il mondo che lo aveva messo a margine. I dirigenti della Roma hanno pensato a lui come l’uomo giusto per un pezzo di cammino, quello che doveva seminare (giovani, preparazione atletica alla Full Metal Jacket, calcio sempre offensivo) perché poi qualcuno diverso da lui raccogliesse. In fondo, con l’innesto di qualche campione già fatto a una squadra che aveva imparato a giocare un calcio divertente, la mossa era riuscita ai tempi di Fabio Capello. Ma i matrimoni di interesse non sempre riescono. Zeman è stato l’allenatore della A.S. Zeman più che quello della A.S. Roma.
La dirigenza della Roma aveva messo in lista altri nomi prima di quello del boemo. Sabatini parlò a Cesena, dopo l’ultima giornata del campionato scorso, e Montella era l’allenatore per la prima del torneo successivo. Si può accettare di non essere la prima scelta, ma dimenticarlo è un’altra questione. Sedici anni fa, tutti sapevano chi fosse Zdenek Zeman. Nel gruppo attuale della Roma solo Totti aveva lavorato con lui. Per gli stranieri era solo un nome e un cognome che iniziavano tutti e due per «zeta». Non era un guru per cui buttarsi nel fuoco. E Zeman non è riuscito a convincerli. Come ha scritto una grande tifosa romanista: «In questo muro contromuro di opposto e poco amore – quello che è davvero mancato in sette mesi nel gioco in cui la passione, che dell’amore è il fuoco, è l’unica ragione — la Roma è stata vittima incolpevole.
E non ci sono uomini neri da incolpare, complotti da invocare, tradimenti e trame e feste e segreti inconfessabili. È tutto alla luce di un sole cattivo quanto illuminante: Zeman non era quello trasfigurato dal nostro ricordo, noi non siamo più quelli che sapevano godere di poco. Siamo tutti un po’ più vecchi. E non è vero che l’età migliora sempre. Per spiccare il volo senza rete devi avere niente da perdere, pochi ricordi, nessuna vendetta da compiere o verità da dimostrare, ma solo una grande, incontenibile voglia di giocare. Quella che a Trigoria, da tempo, non c’era più». Dare le colpe, adesso, è un esercizio umano ma inutile. Servono analisi e passione, in parti uguali. Mescolate, non agitate.