L’unica, ragionevole speranza di questa serata era che si rompesse il portatile; invece niente, neppure quello. Tanto per allungare la lista di tutto quello che non abbiamo avuto: undici giocatori presenti; una squadra degna del suo Capitano; un livello decente di concentrazione; la percezione che questa fosse veramente l’ultimissima serata utile per cercare di recuperare non in termini di classifica ma di dignità; il rispetto per il lavoro di un allenatore, quale che sia il rapporto con lui; un rendimento individuale all’altezza del nome che si porta sulla maglia; la paura di perdere la faccia, definitivamente, di fronte ai tifosi; un minimo di attaccamento non alla maglia, non siamo nati ieri, ma all’ingaggio; il mordente per inseguire una prospettiva, pur che sia, in questo residuo di stagione; una dirigenza che metta se stessa per prima sul banco degli imputati. Pure due rigori, se la vogliamo dire tutta, ma in una serata come questa parlare del men che mediocre Romeo sarebbe ancora più ridicolo del suo ridicolo arbitraggio. Resta la desolazione, questa si, poco più di ventiquattro ore dopo la tragicomica chiusura del mercato (?) giallorosso, col folle vole di Stekelenburg a Londra, peggio di quello dell’ulisse dantesco. Ridevano ieri i redattori dei tabloid inglesi, ridono oggi i tifosi cagliaritani increduli di aver ottenuto stasera il più insperato ribaltamento dello zero a tre a tavolino dell’andata. Qualcuno di noi magari sceglierà pure di ridere per non piangere, ripensando a tutto quello che in questi due anni ci è toccato vedere, sentire, constatare; a volte con incredulità, a volte con amarezza. Ci sarebbe da chiedere scusa, a prescindere, a due persone, a giudizio di chi scrive: Francesco Totti, aggrappato per tutta una partita all’unico appiglio della prestazione personale, di nuovo sulla cresta del record e della brillantezza fisica, tra l’altro la stessa di Bradley e di qualcun altro, come se Zeman allenasse a parte. Poi Zeman, anche se a qualcuno non piacerà: non perché non abbia responsabilità o non abbia commesso errori ma per il salto nel vuoto che accettò di fare la scorsa estate, al momento del suo ritorno. “Io voglio bene alla Roma…” sibilò in conferenza, parlando dei perché del suo ritorno, del suo accettare un contratto che prevedeva un impegno più lungo dei dodici mesi, sforzandosi di glissare sulle tournée da globe-trotters nei momenti cruciali della stagione o sulla distonia tra la sua filosofia comunicativa e quella di una dirigenza che lo aveva scelto dopo aver effettuato altri sondaggi, altre latitudini, altri profili. Il suo resta dritto, anche di fronte all’epilogo più probabile e avvilente, del quale mentre si scrive ancora non si conosce l’ufficialità. Con lui se ne andranno, nel caso, anche gli alibi però. Nessuna chiosa sul portiere: l’infortunio di Goicoechea, nel deserto di una difesa imbarazzante nell’interezza del reparto, quasi sempre preso d’infilata,è in realtà una metafora di quello che sta accadendo alla Roma: tutto quello che potevamo fare per danneggiarci da soli, siamo riusciti a farlo.