C’è una simbologia che va oltre l’analisi, un istante che vanifica tutti gli approfondimenti che erano già in itinere, come dicono quelli che scimmiottano Lotito. Fatto sta che dalla nebbia di un primo tempo dal quale quasi tutti stavamo temendo che uscisse una ripresa caratterizzata dal cinismo juventino, sbuca un tredicesimo minuto che consegna agli annali la firma più prestigiosa che si possa apporre sulla pratica più importante: il notaio ha la maglia numero Dieci, maiuscola d’obbligo. Potremmo dire che sigla il rogito con cui la Roma si reimpossessa di casa sua, ma una rondine, seppur bianconera come tutte le rondini, non fa primavera, dunque la conferma deve chiamarsi continuità, vestita da Atalanta, con il grafico dell’agonismo in ulteriore rialzo. Perché solo ora? La domanda nasce spontanea nonostante l’euforia da novantotto chilometri orari di un pallone talmente intimidito che ha evitato persino di girare, dopo il gancio destro che l’ha mandato al tappeto dopo la capocciata sulla soffitta di casa Buffon. Non è dietrologia, è un rammarico avvalorato da una serata inaspettata, badate bene. Fioccano le analisi, il disappunto parruccato, l’attenzione più sugli inattesi sconfitti che per l’exploit di chi pareva destinato alla graticola, ma in quel campo lì è buono tutto, perché le ipotesi del senno di poi sono ancora più facili di quelle della vigilia. Noi sappiamo soltanto che da una respinta corta dal limite dell’area juventina si è accesa per la duecentoventiquattresima volta la torcia che da mille anni indica il sentiero alla Roma, che quest’ultima se lo meriti oppure no. Sotto quell’ombrello, sempre aperto con generosità, dovrebbe venire istintivo correre a ripararsi, perché tra l’altro conviene anche a chi non capisce l’importanza dei simboli. Chiedete a un bambino di disegnare la faccia della Roma: in pochi secondi avreste un primo piano di Totti.
Paolo Marcacci