(Guerin Sportivo – S. Olivari) Zdenek Zeman lascia definitivamente il calcio che conta, a quasi 66 anni. E l’età è la cosa che di Zeman più ci impressiona, abituati come siamo a considerare il tecnico boemo un eversoere del sistema e non un venerato maestro (qualifica che dopo una certa età non si nega a nessuno).
Accompagnato alla porta, Zeman, cioé esonerato (per lui nona volta in carriera a stagione in corso dopo Foggia, Parma, Lazio, Fenerbahce, Napoli, Salernitana, Lecce, Stella Rossa Belgrado) da dirigenti della Roma in stato confusionale, che adesso non avranno più alibi per giustificare le prove di una squadra futuribile ma certo non all’altezza di lottare per un posto in Champions League.
Lascia con il miglior attacco della serie A, Zeman, oltre che con il maggior numero di gol sbagliati e la peggiore difesa, ben al di là delle statistiche.
Insomma, se ne va da Zeman: convinto di essere nel giusto e consapevole che il suo fallimento farà felice i nostalgici del calcio di Moggi (non necessariamente di Moggi, ma di quel mondo sì). Consideriamo le maglie e le bandiere poco più che stracci da agitare di fronte al popolo bue, soprattutto nel calcio di oggi, ma ancora riteniamo importanti le persone. E il problema di questa seconda incarnazione romanista di Zeman, dopo quella 1997-99, è stato proprio che a Roma non è arrivata una persona che di mestiere fa l’allenatore (tutt’altro che bollito, il Pescara-spettacolo è della stagione scorsa), ma un personaggio e per di più consapevole di esserlo. Per questo il fallimento è stato soprattutto nei rapporti, prima ancora che nella tattica: da De Rossi a Stekelemburg, da Pjanic a Destro, si fa fatica a tenere a mente i nomi degli scontenti e i motivi della scontentezza.
Poi i media trovano nel linciaggio dell’allenatore, in qualsiasi club, l’unica valvola di sfogo visto che i proprietari sono intoccabili e che criticare i calciatori è impopolare: non vale solo per Zeman e non tutti quelli che adesso lo stanno criticando sono antipatizzanti a prescindere, anche se il giornalismo sportivo è pieno di gente riconoscente (e non certo a Zeman) per favori del passato, compresi posti di lavoro in tivù e giornali.
Un finale di partita che ha molti punti in comune con quello di Luis Enrique, al di là del fatto che l’asturiano sia durato qualche mese in più, e che indica chiaramente che alla Roma e in tutti i club metrpolitani le discussioni sul 4-3-3 vengono dopo la capacità di governare ambienti esplosivi. Perché tutti parlano di ‘progetto’ e dal punto di vista aziendale quello messo in piedi da Pallotta e soci, oltre che da Baldini, è davvero un bel progetto, ma nessuno in Italia ha la forza e la cultura per resistere almeno a qualche mese di risultati negativi sul campo. Ritrovarsi dopo due anni a discutere del gradimento dei maggiorenti dello spogliatoio per Montella, sul quale appunto si poteva puntare già due anni fa, è di sicuro grottesco.
Dopo la sconfitta con il Cagliari si sarebbe potuto continuare con Zeman? Sì, se si fosse levata in suo favore una voce autorevole. Mettiamo Francesco Totti, che con Zeman è rinato a 36 anni e passa. Così non è avvenuto e Zeman adesso è riconsegnato per sempre al suo destino di personaggio. Amato da chi pensa che essere onesti e perdenti sia meglio che essere disonesti e vincenti, oltre che ovviamente (la combinazione peggiore, oltre che la più diffusa) disonesti e perdenti.